sabato 23 giugno 2012

Chi sono i Giapponesi?




Chi sono i Giapponesi? Domanda mal posta. Come si riconoscono, come si vedono i Giapponesi? Fase dello specchio. Identità nazionali, identità culturali, identità in generale…

L'idea di cultura giapponese non può essere esaminata separatamente dall'importante nozione di nihonjinron, il cosiddetto “discorso sulla giapponesità”. Organizzato come base teorica del nazionalismo imperiale durante il periodo Meiji, a partire dal secondo dopoguerra il nihonjinron si trasforma in un tentativo di giustificare l'unicità della cultura giapponese di fronte alla crisi della modernità e della globalizzazione. Come ogni grande narrativa che si rispetti, il nihonjinron incorpora elementi che vanno da una presunta origine divina della stirpe all'omogeneità etnica dei Giapponesi, dall'esistenza di una lingua e strutture di pensiero uniche all'esistenza di una mentalità e una filosofia puramente giapponesi ecc. Purezza, unicità, omogeneità: parole d’ordine di un discorso che mira a definire l’identità di una nazione quando chiaramente sono piuttosto attributi quali varietà e complessità a caratterizzare ogni popolo.

È importante sottolineare che il nihonjinron non costituisce un fatto marginale nel Giappone contemporaneo. Lungi dal rappresentare una favoletta promossa da un pugno di accademici e nazionalisti, il discorso sull'unicità razziale e culturale del Giappone ha radici profonde nelle istituzioni del paese. Anderson (1983: ma chi è?^^) lo definisce come un “systematic, even Machiavellian, instilling of nationalist ideology through the mass media, the educational system, administrative regulations, and so forth.” Il potente Ministero dell'Educazione riveste in questo senso un ruolo fondamentale: tra i vari esempi, ancora una volta eredità del periodo Meiji, la tendenza del Giappone ad imporre un curriculum scolastico unificato su tutto il territorio nazionale (vedi famosa storia dei libri di testo obbligatori). Un esempio di Giappone standard promosso da libri di testo standardizzati è quello prettamente geografico, il Giappone delle quattro stagioni: una primavera di ciliegi in fiore, l’afosa estate con cicaleccio in sottofondo, l’autunno dai mille colori, e un freddo inverno innevato…magari alle terme. Queste immagini, così tipiche soprattutto per noi gaijin, sono di fatto faziose. Faziose perché raccontano un solo Giappone, quello che grossomodo si estende dal Kansai al Kanto, dove da secoli risiede il potere e ciò che ne consegue. Mentre la fioritura dei ciliegi dovrebbe “tipicamente” avvenire alla fine di Marzo (o per lo meno così ai bambini è insegnato ovunque), a Okinawa avviene invece a Gennaio e in Hokkaido in Maggio. Allo stesso modo l’estate afosa è sconosciuta in Hokkaido così come i rigidi inverni in Kyushu.

A parte le sottigliezze longitudinali, il discorso sulla giapponesità si estende ben al di là della narrativa e comprende le seguenti idee/miti:

1) Il Giappone è una nazione etnicamente omogenea. Quest’idea è facilmente confutabile considerando non solo il fatto che l’arcipelago venne popolato da diverse gruppi etnici in diverse fasi migratorie, ma anche che nel recente passato un numero considerevole di migranti da Cina e Korea hanno contribuito a rendere il paese molto più multietnico di quanto si creda. Tutto questo senza contare il fatto che gli abitanti di Okinawa o gli Ainu in Hokkaido (appartenenti di fatto a differenti ceppi etnici) si riconoscono solo parzialmente come "Giapponesi".

2) Il Giappone è una nazione socialmente omogenea. L’idea di Giappone come middle-class society è in realtà entrata in crisi sin dagli anni 90’ quando una serie di studi e pubblicazioni mise in luce il fatto che socialmente il paese non era solo più variegato del previsto, ma che l’iniqua ridistribuzione della ricchezza era giunta a un livello tale da guadagnare al paese il nuovo appellativo di kakusa shakai, la società divisa. La divisione non è solo visibile in termini di genere, ma anche a livello generazionale e geografico (e.g. l’enorme divario economico tra aree rurali e aree urbane).

3) Il Giappone ha una sua cultura omogenea e specifica. Quella culturale resta come sempre l’ipotesi più interessante e al tempo stesso la più difficile da trattare. Definita in termini generali, cultura è un termine ambiguo che può includere simboli, artefatti, pratiche, rituali e valori. Data la natura terminologica molto vaga, cultura appare in definitiva come uno strumento di analisi quasi inutilizzabile. La verità è che non esistono culture “pure”. Ogni cultura è sempre il risultato di influssi esterni e conseguenti adattamenti. Quella che oggi viene chiamata con enfasi globalizzazione è di fatto un processo che esiste da sempre (con la differenza che le cose andavano un po’ più a rilento). In Italia, dove la cucina è unanimemente considerata parte integrante della cultura, ingredienti quali pomodori, patate e caffè (tutti ingredienti alla base della cucina “italiana”) provengono dall’America e non furono introdotti in Europa prima del XVII secolo.

Primo punto: non esistono culture pure, ma solo ibridi. Nel caso del Giappone si consideri ad esempio l’importanza dell’influsso Cinese fino almeno a metà del VI secolo: buddismo, strutture politiche, arte, architettura, sistema di scrittura... Lo stesso si dica per l’influenza Occidentale a partire dal periodo Meiji fino ai giorni nostri. Il Giappone giustificò allora “l’invasione culturale” dell’Occidente con il motto wakon yōsai, “tecnologia occidentale, spirito giapponese”, ancora una volta il tentativo di predicare la giapponesità di fronte a un colossale processo di assimilazione di tecnologia e modelli istituzionali stranieri. Tutto ciò non significa d’altro canto che lo spirito giapponese non possa in qualche modo esistere. Ogni forma di assimilazione è sempre infatti adattamento e traduzione. La globalizzazione, a dispetto delle varie tesi tipo imperialismo culturale in voga negli anni 60’ e 70’, è sempre e comunque glocalizzazione. MacDonald docet.

Secondo punto: non esistono culture omogenee (di certo non su vasti territori). Il Giappone, al pari di molte altre nazioni, presenta notevoli differenze a seconda del contesto geografico (tra diverse regioni o persino città) che vanno dalla lingua alla gastronomia, dalle pratiche religiose ai più discutibili “tratti comportamentali” ecc.

Ma in tutta questa varietà resta almeno qualche elemento in comune? Pur rifiutando “purezza” e “omogeneità” come caratteristiche di una qualsiasi cultura, resta il fatto che di cultura è comunque ancora possibile parlare. Sarebbe d'altronde eccessivo portare questo discorso alle estreme conseguenze e concludere che il Giappone non è altro che un’unità geografico-politica (tra l’altro messa in dubbio dalle continue diatribe territoriali con i vicini asiatici!). Ammettendo l’esistenza di alcuni tratti culturali che, su varia scala, caratterizzano gli abitanti del Giappone, come fare a rintracciarli?

Chiedendo ad un Giapponese che cosa sia Cultura Giapponese, ciò che più stupisce è probabilmente la prontezza della risposta. Ecco che comincia la lista: cerimonia del te, ikebana, kabuki.... Buffo tra l’altro che questa sia anche la versione del Ministero degli Esteri sul sito ufficiale. Ma poi chiedete allo stesso signore quante volte abbia praticato una cerimonia del te o a quanti spettacoli di teatro kabuki abbia assistito. Probabilmente zero. A dire la verità – e tanto per dire una bestemmia – nel Giappone contemporaneo Lady Gaga o l’iPhone sono probabilmente più “cultura” di tutti gli esempi di cultura tradizionale messi insieme.

La scorsa settimana durante un’intervista, Inochi san (un robot designer) mi confessa candidamente che i Giapponesi non vogliono immigrati per evitare "troppi influssi" stranieri. “Noi Giapponesi amiamo la nostra cultura e non vogliamo mischiarci troppo”. Oltre all’onestà, a sorprendere c’è il fatto che apparentemente il Giapponese medio pare avere un’idea ben definita della propria identità culturale. Se mi chiedessero cosa sia cultura italiana...boh, per fare il simpatico mi toccherebbe dire pizza e pasta (se non altro per evitare di dire calcio). Di certo non mi metterei a parlare di Dante o di opera lirica. Il fatto è che ai Giapponesi è stato detto talmente tante volte quanto siano speciali (se non altro nel senso di diversi) che ormai tale consapevolezza ha fatto radici. Narcisismo nazionale: il Giappone ama parlare di sé stesso a sé stesso. Esempio tipico: la lingua giapponese. Unica, incommensurabile, inapprendibile. I Giapponesi credono fermamente (anche se non ve lo diranno mai in faccia) che uno straniero non potrà mai padroneggiare la loro arcana lingua (forse solo qualche Cinese illuminato) in quanto esisterebbe un legame profondo e inscindibile tra l’essenza più profonda della giapponesità e la lingua giapponese. Le stesse strutture grammaticali sarebbero, secondo la storia (una delle teorie più riuscite del nihonjinron), alle radici del pensiero Giapponese.

Cambiando ancora domanda – ovvero tornando alla primissima domanda – come si identificano i Giapponesi? Si potrebbe dire che una persona nata e cresciuta in Giappone (e che dunque ha assimilato lingua e “cultura”) da genitori Giapponesi può essere considerata 100% Jap. Quelli che mancano uno o più dei requisiti saranno visti con crescente sospetto. E per quanto riguarda i tratti culturali specifici? Non esistono un modo di pensare, di comportarsi, di sentire tipicamente giapponesi? Io direi di sì, ma non saprei proprio elencarli.

Concludendo. Nonostante il nazionalismo “stile classico” non sia più un ingrediente indispensabile nella ricetta di governo di stati democratici, il Giappone come paese e potenza economica necessita oggi più che mai una forte immagine culturale. Nel nuovo millennio il Giappone perderà la corsa al PIL contro le grandi potenze economiche emergenti (Cina in primis) e in assenza di un peso militare o politico nell’arena internazionale, la creazione di un soft power basato su una forte identità culturale si rivela in questo senso fondamentale soprattutto sul piano economico. Da sempre le istituzioni dispongono di un potere notevole nel manipolare simboli, saperi e miti. Il Giappone in particolare ha una storia importante a riguardo come dimostrano i numerosi tentativi governativi di creare e manipolare una “cultura nazionale” dall’alto (e.g. creando un modello di famiglia “autentica”, prescrivendo lo shintoismo come religione nazionale autoctona, promuovendo il sumo come sport nazionale, creando il mito dell’imperatore come incarnazione dell’unità nazionale, ecc.). Oggi il Giappone sta puntando parecchio sul “cool Japan”, fashion e anime in prima linea. La giapponesità in senso tradizionale continua a perdere colpi, ma come da sempre avviene in questo paese conservatorismo e innovazione troveranno un modo originale per convivere. Forse, qualunque cosa sia, uno spirito giapponese immortale esiste davvero.

sabato 25 febbraio 2012

Pater Familias




Ai giovani d’oggi servono modelli forti. Modelli in famiglia innanzitutto. Genitori presenti, genitori che sappiano fare da guida ai propri figli. Soprattutto servono dei papà. Per favore padri del Giappone, siate almeno dei padri decenti!

Questo è il riassunto di quella retorica istituzionale, governativa o pseudo tale, che negli ultimi 10-15 anni ha reclamato a gran voce un ritorno dei padri giapponesi in quel luogo, spesso dimenticato, noto anche come famiglia. Una retorica forzata e pure risibile considerato che a queste testimonianze di buona volontà dello stato “paternalista” non fanno seguito politiche concrete, riforme capaci di riportare al focolare domestico gli stacanovistissimi uomini del sol levante.

Che storia è questa? Cosa c’è che non va con i papà giapponesi? Detto in tre parole: non ci sono. Non dove dovrebbero (ma giusto un pochino!); e cioè a casa, magari per cena o semplicemente a fare due chiacchiere con moglie e figli. Uno studio governativo del 1999 mostrava una media di 17 minuti al giorno spesi dai padri giapponesi con i propri figli. Non proprio un granché. In Giappone, causa ancora una volta il disagio giovanile come principale (presunto) indicatore di un malfunzionamento del modello familiare, quello dei padri assenteisti (chichioya fuzai) rappresenta un tema caldo dalla fine degli anni 80’.

Non è un segreto, in Giappone si lavora sodo. Si lavora così tanto che per il salariman medio il ritorno a casa si trasforma in un evento random, una sorta di contingenza quantistica. Non c’è legge sull’orario massimo di lavoro che tenga, nessuno può sottrarsi all’unica vera legge non scritta: una volta dentro sei roba loro. “Dicevano di aver trovato un lavoro, di fatto era il lavoro ad averli trovati e loro ad esserglisi venduti”: mai tale verità fu più vera che qui in Giappone.

Passo indietro. La kaisha. In giapponese kaisha (会社)significa compagnia, azienda, ditta (che brutto ditta!). Ma in giapponese kaisha può spesso significare famiglia. Famiglia sul serio: ci sono i membri, le gerarchie, le amicizie… E per il vero uomo giapponese, la vera famiglia è quella aziendale, il luogo in cui andranno riversate tutte le proprie energie, attenzioni e relazioni sociali. Perché? Perché qui dedizione e lealtà sono virtù fondamentali e arruolandoti, l’azienda, questa nuova casa che ti accoglie con tutto il suo amore, ti sta facendo un onore così grande che l’unico modo per ripagarla sarà di venderle l’anima.

Ok, sto esagerando un po’. Di fatto però la mentalità diffusa, lo si voglia ammettere o meno, si avvicina terribilmente a questa descrizione. A un sondaggio del 2003 dove si domandava se un “vero uomo” potesse vivere per la propria famiglia, oltre il 40% rispondeva di no.

Ma chi è il “vero uomo” in Giappone? I modelli di mascolinità non mancano proprio. A dire il vero ce n’è così tanti in circolazione che si fatica a stabilire quello dominante. E se ciò può apparire abbastanza buffo agli occhi del turista occidentale, spesso stupito dell’effeminatezza della popolazione maschile nipponica, bisogna ricordarsi che la mascolinità non ha nulla a che fare con la natura e tutto a che fare con la cultura. Essere modaioli è da effemminati? Rifarsi le sopracciglia è “gay”? Chissà. Di certo in Giappone l’idea dominante è che occuparsi dei figli o non ammazzarsi di lavoro non è “maschio100%”.

E la paternità s’inserisce perfettamente nel discorso sulla mascolinità. Fino alla seconda metà degli anni 90’ c’era da rimanere sorpresi per la monotonia della retorica pro-padre diffusa dai mass media e dallo stesso mondo accademico. Il problema, spesso trattato secondo il late motif dell’autorità paterna (fusei no ketsujo), veniva perlopiù affrontato resuscitando modelli perduti di figure paterne tradizionali. Tipico il più nostalgico ganko-oyaji, il padre da osservare, il padre guida; sarà di poche parole e le sue spalle possenti, le spalle dell’uomo che lavora, forniranno un’immagine indelebile, un modello per la vita. Più folcloristico il kaminari-oyaji, il “padre fulmine”, duro e puro, tosto e cazzuto; il meglio per i giovani smidollati!

Gira e rigira, di mezzo il lavoro c’è sempre. Il lavoro nobilita l’uomo, giusto?
Va bene il lavoro, va bene la dedizione ecc, ma come si è potuto arrivare al punto di non ritorno? Non è tanto un fatto culturale: “i giapponesi sono masochisti” Non è nemmeno genetica: “i giapponesi sono masochisti – ce l’hanno nel dna”. Mentre la seconda ipotesi non merita commenti, la prima richiede invece una parentesi – il vecchio dilemma “ma cos’è cultura?”. Cultura è una parola un po’ vaga. Cercando di definirla ci si ritrova spesso smarriti nel tentativo di far funzionare argomentazioni contorte (per non dire tautologiche). Tenendosi vaghi – e sicuri –, nel tentativo di spiegare l’attuale stato di cose direi (con una buona dose di politically correctdeness) che le contingenze storiche, anche grazie a un terreno culturale fertile (ma allora ci risiamo!) hanno portato all’instaurarsi di una particolare mentalità aziendale/manageriale e che tale mentalità, consolidatasi come standard (ed etichettata sotto la voce cultura), è diventata difficilmente sostituibile. Se anche il neo shakaijin non fosse proprio nell’ottica, se anche il giovane salariman in erba partisse con tutte le migliori intenzioni di fancazzismo, si troverebbe comunque preso in trappola. Quello che si osserva nel Giappone contemporaneo è pura struttura: la gabbia d'acciaio.

In Giappone la cultura aziendale è nata di fatto nel dopoguerra, negli anni duri in cui bisognava ricostruire tutto, riportare il grande paese agli antichi splendori (questa volta però senza imperatore e senza impero). È in questi anni che l’ideale di fedeltà alla compagnia si innesta come nuova declinazione di quella morale samuraiesca che nella prima metà del 900’ faceva dell’individuo un vassallo dell’impero. E in fondo la kaisha è di fatto il tramite per restaurare l’onore e la forza della nazione.

In quegli anni, con la nascita del modello di lavoratore urbano e la diffusione della famiglia ristretta, si stabilisce un nuovo standard: l’uomo lavora tutto il giorno mentre la donna cura la casa e accudisce i figli.
Che idea brillante! Come poteva non pensarcisi? Questo è senza dubbio il modello migliore per dare alla luce famiglie unite, all’insegna della parità dei sessi e soprattutto per garantire padri presenti. Beh, la classe politica ultimamente ci sta ripensando perché si è accorta che le cose non funzionano poi così bene. E non tanto perché questo bel modello fa scempio della famiglia, ma perché oggi ci sono fattori economici e demografici che premono. Primo problema, il basso tasso delle nascite. I giapponesi non figliano; le statistiche indicano, dati aggiornati al 2011, una media di 1.3 figli per coppia. E non tutte le coppie possono o decidono di avere figli. Di fatto il Giappone è in piena decrescita della popolazione e la piramide demografica si sposta a ritmi preoccupanti verso la terza età. Come fare a stimolare a fare più figli?^^ Dove stimolare?^^ Dov’è l’intoppo?

Ecco il problema! Era così ovvio…le donne! Sempre le donne. Queste frigide ingrate non vogliono più sfornare bambini. Egoiste e ingrate, pensano che non sia il caso di fare un figlio perché il marito non sarà mai a casa… Che idea, ovvio che no, se no chi porta a casa la pagnotta? Vabbè, visto che proprio non si riesce a convincerle ci toccherà promuovere qualche campagna mediatica pro-papà. Un paio di spot pubblicitari, qualche brochure a domicilio…et voila! Dai papà, su che ce la puoi fare!

Sorpresa, non ha funzionato.

Mentre si è speso parecchio in campagne mediatiche, poco è stato fatto sul versante concreto delle riforme, riforme capaci di rivoluzionare la cultura aziendale e le pratiche lavorative in genere. Uno studio del 1996 mostrava come solo lo 0.16% degli aventi diritto avesse sfruttato le ore libere retribuite (accordate per legge) per la cura dei figli. Durante la seconda metà degli anni 90’ e nel nuovo millennio nuove leggi sono state approvate, ma in pratica poco è stato fatto per smuovere i poteri forti del paese, quelli che continuano a promuovere e riprodurre le vecchie abitudini.

Per quante leggi sull’orario massimale (o sulle vacanze retribuite) si possano introdurre, se il capo ti vuole in ufficio fino a sera c’è poco da fare. A chi serve un impiegato in ufficio alle dieci di sera? A nessuno. Ma se per puro caso qualcuno decidesse di telefonare a quell’ora, sarebbe decisamente un pessimo segnale il sentirsi dire da segreteria telefonica che l'ufficio è chiuso. 
Sì, ma… è tardi e di solito a quest’ora…” Balbetta il neo-assunto, ingenuo impiegato. 
No, no, no. Non hai capito. È una questione di principio, una questione di buone maniere.

La partecipazione forzata, la presenza per la presenza, l’esserci per l’esserci: si fa atto di lavoro come si fa atto di fede. Non solo prestazione, ma innanzitutto socializzazione. Il lavoro come istanza sociale è giunto da tempo ben al di la della mera “produzione” e qui in Giappone lo sanno da tempo (Baudrillard docet). Finita l’era della produzione, benvenuti nell’era della socializzazione forzata! (mi ricorda qualcosa…ah sì, Facebook…) Ma sto divagando. La cultura aziendale giapponese richiede sicuramente un’analisi approfondita che magari tenterò in un altro post.

Che cosa è cambiato nell’ultimo decennio? Qualcosa di certo. I padri giapponesi sono più presenti e la stessa retorica pro-padri si è arricchita di nuove prospettive rispetto anni 90’. Come dire, sembra quasi che i giappi stiano diventando sempre più…umani!

La battaglia per la famiglia continua…


domenica 22 gennaio 2012

Mio figlio è un Hikiko… è solo un po’ timido.




Più o meno chi sono gli hikikomori lo sanno tutti: gli alienati sociali, gli agorafobici, i ritirati a vita. Di fatto per scovarli non bisogna andare fino in Giappone. Di amici così ne ho un paio anch’io; se ne stanno in casa tutto il giorno, smangiucchiano snack, sfumacchiano, come migliori amici si ritrovano videogiochi, serie tv e utube. E allora che c’è di diverso in Giappone? Innanzitutto i numeri. I dati – ufficiali e non – segnalano la presenza di almeno un milione di questi individui: ciò corrisponde ad un buon 1% della popolazione totale e oltre il 3% della popolazione “giovane”. Il fenomeno è infatti caratteristico dei giovani con un picco nell’età compresa tra i venti e i trent’anni.

Ma chi sono costoro? Qual è il limite che divide “un tipo un po’ asociale” da un hikikomori? La prima difficoltà parlando di hikikomori sta proprio nella loro definizione. Non trattandosi di una patologia vera e propria, nessun documento ufficiale ha mai sancito l’identikit dell’hikikomori doc e di conseguenza anche le statistiche indugiano.

Il fatto è: che palle le definizioni! In fondo con le parole si gioca, non si mettono in piedi equazioni. La solita domanda obesa: “Cosa intendi esattamente per…?” “Dai che hai capito cosa intendo…” Le parole, soprattutto in contesti sociologici&antropologici, andrebbero al massimo intese come “strumenti operativi”. L’hikikomori non è un atomo di carbonio e nemmeno la radice di 5, è un “tipo”, un “individuo tipo”. Ci si può tendere più o meno senza mai giungerci davvero – un po’ come un logX^^

E così saltiamo con classe la definizione pallosa.

Dove li posso trovare? Un po’ dappertutto. Soprattutto nelle aree urbane e in famiglie benestanti (ma il Giappone non era poi tutto middle class?). I soldi dopotutto contano eccome. Come si fa se no a mantenere un piccolo hikikomori? Non avranno grandi spese ma di certo mangiano e qualche manga o videogioco dovranno pur comprarselo!

Ovviamente il problema con gli hikikomori non è unicamente finanziario. A parte il rappresentare un fardello sociale, l’hikiomori è innanzitutto un dramma in ambito familiare. A parte lo “spillaggio monetario”, gli esempi più estremi testimoniano casi di violenza e dispotismo domestici. I giovani zombie iniziano con l’occupare aree sempre più ampie della casa fino a giungere al confinamento dei familiari in zone prestabilite.

Se l’idea diffusa di individui totalmente barricati in casa non è di certo esaustiva, è tuttavia confermato che la maggior parte di questi individui condividono comportamenti analoghi. Sospensione di attività sociali quali scuola o lavoro, sostituzione del giorno con la notte, isolamento da coetanei e familiari. Nei casi più radicali un hikikomori potrà giungere ad un totale rifiuto di interagire con altri esseri umani. È vero d'altronde che non tutti sono così. Alcuni escono di casa (preferibilmente di notte) per acquistare cibo in qualche kombini e talvolta intrattengono relazioni più o meno sporadiche con familiari e amici.

Come relazionarsi con un figlio hikikomori? In Giappone, ammesso che il problema abbia “soluzioni” buone e cattive, la cosa è di certo affrontata nel peggiore dei modi. E cioè facendo finta di niente. Ancora una volta il peso dello stigma sociale si fa sentire con tutta la sua forza in una società fortemente normalizzata come quella giapponese. Una coppia di genitori, fin quando possibile, preferirà infatti tacere il problema piuttosto che chiedere aiuto. Il fatto è che in Giappone la sola idea di terapia è del tutto aborrente. Lo psichiatra è un alchimista sadico e lo psicologo un ciarlatano. Non che la psicoanalisi abbia mai fatto miracoli, ma è interessante notare come a differenza del nostro “occidente dell’inconscio”, in Giappone una cultura psicoanalitica non abbia mai attecchito. Un fatto interessante che mi sono ripromesso di affrontare in un altro post.

Comunque, il fatto è che i genitori di un hikikomori si vergognano e non parlano. Almeno finché la faccenda non si fa insostenibile. E qui comincia la terapia. I due tipi più diffusi sono i cosiddetti “gruppi parentali” (oya no kai) e i “gruppi familiari” (kazoku kai). Queste riunioni, coadiuvate da uno psicologo, rappresentano un’importante fonte di sostegno per i genitori più di quanto non lo siano per gli stessi hikikomori. Qui i genitori possono confrontarsi con altre famiglie nella stessa situazione scoprendo così di non essere soli né tantomeno “speciali”. I gruppi aiutano inoltre le famiglie a prendere consapevolezza della condizione dei propri figli. Il fatto più interessante è che questi individui, finalmente sottoposti ad analisi, si rivelano spesso affetti da psicosi (schizofrenia ecc.) o disturbi della personalità (manie di persecuzione ecc.). Spesso l’adozione di una semplice etichetta medica cambia completamente la prospettiva sul proprio figlio che da “anormale” si trasforma in “malato”. Il solo realizzare e accettare lo stato patologico del figlio fornisce un forte incentivo per i genitori che non si sentiranno più colpevoli ma al massimo sfortunati.

La domanda che nasce spontanea: perché tutti questi hikikomori in Giappone? I vari esperti sono perlopiù concordi nel non imputare il fenomeno a singole cause ma a una concomitanza di fattori. Di certo, osservando il Giappone dall’esterno, si può notare come in una società così rigida e controllata possa avvenire più facilmente che un individuo si ritrovi tagliato fuori. Una volta “perso il passo”, ambito scolastico o lavorativo che sia, è pressoché impossibile rimettersi in carreggiata; una persona fragile o insicura preferirà ritirarsi totalmente da una società in cui non è stato in grado di inserirsi come da lui ci si aspettava.

Aspettative e conformismo. Fallimento e reclusione. In poche parole si può riassumere il dramma di una società che dell’omogeneità ha fatto un regime, e della normalità la più insidiosa delle catene.

domenica 15 gennaio 2012

Sei religioso? Dipende...





Di sondaggi ne sono stati fatti parecchi ma il risultato è sempre lo tesso. Se chiedi a un giapponese se è religioso (宗教がある - syukyo ga aru?) saranno alte le probabilità che la risposta sia un no. E magari pure una risatina imbarazzata che sta per “ma no, ma per chi mi hai preso!”

Ma è poi tutto vero? Dobbiamo fidarci sulla parola? Sì e no, perché come sempre le cose sono un po’ più complicate di quello che sembrano.

Primo problema. Le parole.
Le parole sono sempre un problema (in tutte le lingue lo sono ma poi quando si arriva al giapponese ecco che tutto si complica ancora di più). Syukyo può essere tradotto in italiano con “religione”. Tuttavia in giapponese syukyo evoca due elementi ben precisi, una chiesa (un’organizzazione) e una fede. Ora, i giapponesi diffidano delle istituzioni religiose (non ultima tra le varie ragioni il numero di sette fanatiche nate dagli anni 90’ in poi) e per quanto riguarda un credo dichiarato…beh, ne discuterò con calma.

La verità è che il Giappone è un paese profondamente religioso. Semplicemente la religione non è il cristianesimo né tantomeno un qualche altro prototipo di monoteismo. E la religione in Giappone non si esprime principalmente come appartenenza a una chiesa o nella dichiarazione esplicita di fede in qualche divinità, bensì nella costante pratica di riti.

I riti caricati di significati e riferimenti religiosi sono innumerevoli e i giapponesi possono essere definiti praticanti a tutti gli effetti. Chiedere la protezione degli dei e pregare per i morti rappresentano solo una parte (quella più “esplicita”) delle pratiche religiose. La ritualità più diffusa, quella che accompagna gli individui giorno dopo giorno, è spesso invisibile, camuffata dietro gli atti più semplici della vita quotidiana. Atti di routine come il togliersi le scarpe prima di entrare in casa hanno in realtà un importante valore “religioso” (che spiegherò poi) e storicamente si giustificano proprio in tale prospettiva.

Il tema del “credo”. Se interrogati su evidenti manifestazioni di religiosità i giapponesi rispondono “è parte della cultura giapponese”. Ok, certo, ogni religione può essere etichettata come cultura, eppure certe caratteristiche permettono di distinguere pratiche religiose da, che ne so, arte e gastronomia. Che dire dell’amuleto comprato al tempio per passare l’esame d’ammissione? O delle preghiere fatte per gli antenati di fronte al butsudan domestico? Chiamala cultura, chiamala abitudine, fatto sta che qui qualcosa di non propriamente materiale di fatto c’è.

Che cos’è un rituale (nel senso di abitudine)? Un’azione ripetuta nel tempo, un atto che diventa di routine. Tuttavia le persone non sono stupide (non del tutto) e si interrogano (prima o poi) sulle proprie azioni. Quando si compra un amuleto protettivo cosa si sta pensando? “Lo fanno tutti” non giustifica appieno l’atto. “Lo faccio per scaramanzia” già inizia ad inquadrare meglio la questione. Che cos’è la scaramanzia? Il “non si sa mai”. Non è forse il timore (ma di conseguenza la credenza, seppur non dichiarata) in qualche entità/energia/forza superiore che agisce secondo certi intenti/principi?

Senza dilungarmi ulteriormente nel definire il “grado di consapevolezza” del giapponese medio in tema religioso, mi concedo una mia conclusione personalissima. I Giapponesi non dichiarano il loro credo in divinità ecc. ma di fatto agiscono come se così fosse. La definizione che più si avvicina a questo stato di cose è a mio parere superstizione (anche se qui si ritorna al problema iniziale, quelle delle parole e le cose). I Giapponesi non saranno “religiosi” nel senso che intendiamo noi (un credo dichiarato) ma sono certamente superstiziosi. E comunque agli obake tutti ci credono. (Sul serio, questo è un fatto inspiegabile, gli chiedi dei kami e ti dicono no no, poi gli chiedi dei fantasmi e tutti dicono di sì.)

Comunque.

Il panorama religioso giapponese è il risultato di numerose influenze di cui lo Shintoismo (religione nativa), il buddismo e il confucianesimo rappresentano i tre pilastri. Si fanno spesso acrobazie antropologiche (ma soprattutto lo Stato nel periodo Meiji le ha fatte...) per discernere cosa sia Shinto e cosa sia Buddista, ma il fatto e che nei secoli pratiche e dottrine si sono intrecciate a tal punto da rendere difficili distinzioni nette.

E tuttavia alcune cose si possono dire. Lo Shintoismo, collegato a eventi quali “battesimi” alla nascita, a cinque, sette e a vent’anni, si basa sulla venerazione dei kami, divinità/spiriti che risiedono nella natura così come in luoghi e artefatti umani. È importante guadagnarsi la benevolenza dei kami e in tal senso esistono numerose pratiche come le offerte di cibo negli altari/templi. Il Buddismo, giunto in Giappone attorno al sesto secolo D.C., si è accaparrato tutte le pratiche relative alla morte e all’oltremondanità in genere, al punto da essersi guadagnato, in gergo vernacolare, l’appellativo di “buddismo funerario” (葬式仏教). Il Buddismo è inoltre qui connesso a pratiche che puntano a “illuminazione” e coltivazione delle virtù. Il Confucianesimo ha prodotto, accanto a gli ideali di sincerità e purezza dello Shinto, quelli di perfezionamento del sé e di “società in armonia”.

Questo è un riassunto di dieci righe di un pensiero e di tradizioni secolari. Ovviamente un po’ riduttivo, ma il punto di questo post non è quello di fare la storia della religione in Giappone, bensì di rendere conto di cosa significhi essere religiosi oggi in questo paese.

Apro una piccola parentesi sul concetto di morale. In molte società i codici morali, codificati in ambito religioso, furono messi per iscritto, nero su bianco. In Giappone lo Shinto non ha prodotto alcun codice (niente dieci cummendamenti) e per quanto riguarda il buddismo, i testi sacri rimangono esclusiva di preti e studiosi di storia delle religioni.

Dove sono le regole? Non scritte, ma comunque tramandate, le leggi morali dell’individuo sono garantite da un costante praticantato. Ebbene sì, le numerose forme di ritualità caricate di significato religioso rappresentano la miglior garanzia di apprendimento. Né lette né impartite, non solo per le regole ma in generale, non c’è modo migliore di imparare qualcosa se non facendolo e rifacendolo all’infinito. Dai la cera, togli la cera. A questo riguardo cito un libro molto bello e piacevole che consiglio a tutti, "Lo zen e il tiro con l’arco" di Eugen Herrigel.

In Giappone l’individuo “morale” è colui che pratica quotidianamente riti morali (o “dispensanti” morale). Lo stesso termine morale va qui inteso in maniera differente. Lungi dall’essere connessa a (e giustificabile con) temi quali la presunta salvezza dell’anima o storiacce sull’aldilà, la morale è qui riferita a cose ben più concrete: la cura dell’anima/corpo e il ruolo dell’individuo in società.

Primo punto, l’anima/corpo. Mentre il pensiero occidentale ha sottolineato e rafforzato tale dicotomia con ogni mezzo possibile, nella cultura giapponese una simile distinzione appare tutto sommato irragionevole. Fortificare il corpo significa automaticamente rafforzare l’anima e viceversa. Il “mens sana in corpore sano” dei nostri saggi romani ancora non inquadra appieno la questione. Qui ancora s’intuisce una scissione, se non altro cronologica. “Se avrai un corpo sano, anche l’anima sarà forte”: così si potrebbe parafrasare il proverbio. Il se connota una sequenzialità. Il pensiero giapponese (e senza dubbio altrove in Asia) vede nelle due pratiche una totale simultaneità e complementarità. Mentre ti occupi dell’uno, stai già lavorando sull’altro. Il corpo appare dunque come moralmente definito e la disciplina sul corpo è di conseguenza indispensabile. Vi eravate mai chiesti perché i giapponesi stanno seduti super (er)retti quasi come se un oggetto gli stesse puntellando l’anus? La schiena dritta non è solo più bella, ma distingue anche l’individuo morale.

Secondo punto, l’individuo in società. La cultura giapponese è profondamente permeata di valori ispirati all’idea di individuo come costitutivo di un gruppo. Gratitudine, umiltà e rispetto sono virtù fondamentali per i giapponesi. Ancora una volta, a differenza del pensiero occidentale dove si riscontra un primato del rapporto individuo-dio o eventualmente individuo-inconscio (in fondo entrambe forme di pensiero metafisico), in Giappone l’individuo si definisce innanzitutto come “terminale di relazioni”. L’"io" è concepito essenzialmente come rapporto con l’altro. Questo non è Hegel, qui si parla di fasci di relazioni, energie, forze soprannaturali…robba mica da ridere^^ Tanto per citare qualcosa lontani anni luce, riporto qui una perla di robotica. La "teoria del ba", originariamente coniata da Nishida Kitaro (considerato da molti il fondatore della filosofia moderna in Giappone) è stata ripresa e reinterpretata da numerosi robot designer per concettualizzare un diverso modello di ingegneria robotica. La scissione soggetto-oggetto di matrice cartesiana è qui sostituita da un rapporto di “contingenza e prossimità” (ba) che riscrive l’aufhebung hegeliano in una prospettiva di “tensione costante”. Il robot risulta quindi necessariamente incarnato in un corpo fisico, unico luogo dove può formarsi il “pensiero”. Et voila, Ghost in the shell (ma di robot parlerò in dettaglio in un altro post).

I riti religiosi. Iniziamo da quelli più classici per scaldarci. Visite a templi e altari, offerte agli dei (kami e hotoke – le anime dei morti – richiedono diversi cibi e regali), acquisto di amuleti e portafortuna, preghiere… Esistono templi dedicati a necessità specifiche: quelli per la fertilità, quelli per passare l’esame di ammissione all’università, quelli per l’amore, la guarigione da malattie ecc. La morte è poi un altro tema molto importante di cui però parlerò però approfonditamente in un altro post.

Ma è soprattutto la ritualità quotidiana a rivelarsi quella più interessante. E ciò proprio perché da noi una simile ritualità non esiste in quanto il cristianesimo ha sancito una distinzione tra pratiche religiose e quotidianità. La ritualità (preghierina della buona notte esclusa) rimane confinata alla chiesa (luogo fisico) e alle sue estensioni eccezionali (es. marcia funebre). In Giappone il rito è esteso a tutti i rapporti sociali.

Inchini. Sottolineano il rispetto, la riconoscenza e la gerarchia. Non è tanto un segno di sottomissione (come si è spesso portati a credere) quanto un “rendere omaggio all’altro”. Siamo tutti inclusi in una grande rete di relazioni ed è importante “ringraziare” in quanto anello e terminale di tali legami.

Pulizia. La pulizia dei luoghi e del corpo genera parallelamente una pulizia dell’anima. Una persona confusionaria o sporca è conseguentemente immorale.

Offrire e spartire doni. Il dono è importante, rinsalda i legami e la fedeltà. Il dono (a differenza dello scambio in una prospettiva economicistica) ha un forte ruolo simbolico e in molte culture costituisce addirittura la base dei rapporti sociali. In Giappone gli ideali di dono e scambio sopravvivono in usanze quali l’omiyage (土産) e gli incontri tra colleghi dove si spartiscono snack e bevande. (non è un picnic^^)

Convenevoli. I convenevoli (buongiorno, buonasera) esistono in tutte le lingue/culture. In Giappone tuttavia sono innumerevoli e imprescindibili. La ritualità è in tal senso evidenziata e si colloca al limite della “regola”.

Postura. Già citata; chi sta dritto è padrone di se ed è forte nello spirito.

Prossemica e spazi. Solo su questo aspetto si potrebbero scrivere libri interi e forse vi dedicherò un post. Il fatto è che in Giappone l’uso degli spazi (domestici, di lavoro, sconosciuti ecc.) è regolato da attitudini/comportamenti ben precisi. Il travalicare tali spazi equivale all’invasione scortese dell’altro. (ps: in Japp no baci e abbracci!)

Mi sono appena accorto che questo post si è fatto lunghissimo quindi ci do un taglio.

Buon 2012.


giovedì 22 dicembre 2011

Parassiti




I giovani Giapponesi sono indipendenti, giusto? Si danno da fare, lavorano, già dalle superiori si trovano un バイト (アルバイト、lavoro part-time) per non pesare unicamente sui genitori. Gli studenti universitari neanche a dirlo, un lavoretto o due ce l’hanno di certo. In più i genitori non sono ossessivi come i nostri, soprattutto le mamme.

Falso.

Se è vero che confronto a noi Italiani i Giapponesi sono complessivamente più indipendenti, bisogna anche rendere conto di quella significativa fetta di giovani che fino all’età del matrimonio (e a volte anche oltre) rimane a carico dei genitori.

Bamboccioni in italiano, nesthocker in Tedesco, no-se-va-màs in Argentino, il succo è lo stesso: i giovani che non si levano dalle ….

Sfortunatamente in Giappone l’appellativo per costoro, coniato dall’eminente professor Masahiro Yamada della Tokyo Gakuei Universty, è un po’ più offensivo. Parassiti. Prassite single.

Nel bestseller annata 1999 パラサイトシングルの時代, (parasaito shinguru no jidai) Yamada ci racconta della decadente gioventù giapponese, dei milioni di giovani (10 nel 1995) che all’alba dei trent’anni ancora vivono coi genitori rifiutando le responsabilità della vita adulta. Yamada accusa in particolare le madri di questi parassiti e, neanche a dirlo, le giovani donne. Sì, perché per il professore il fenomeno è tra le prime cause dei terribili problemi che affliggono il paese, bassi tassi di natalità in primis.

Ma da dove spunta quest’armata di parassiti? Questi scarafaggi, queste immonde creature che succhiano la linfa vitale di genitori ciechi d’amore?
Beh, non è un segreto, in Giappone la vita costa cara. E specialmente in città come Tokyo con gli appartamenti non si scherza e un giovane lavoratore dovrebbe impiegare circa metà del proprio stipendio per pagarsi l’affitto. Per non parlare poi delle spese extra, dei benefici legati alla mamma che cucina, che ti stira le camicie… ma queste cose noi italiani le sappiamo meglio di chiunque altro!

Il fatto è che a essere pieni di soldi chi non vorrebbe vivere per conto proprio? È quando i soldi scarseggiano che i compromessi diventano necessari. Ciò che Mr.Yamada non si forza di comprendere affondo è il contesto di stagnazione economica che affligge il Giappone dagli inizi degli anni 90’.

La situazione dei moderni giapponesi all’indomani dalla laurea non ha nulla a che fare con quella di Yamada e coetanei negli anni d’oro. Stipendi a vita, aziende in costante espansione, sogni produttivistici, miti produttivistici…oggi giorno tutto ciò e scomparso. La compagnia (non dico azienda perché suona troppo brutto) non è più quel luogo dove i sogni di carriera e successi possono diventare realtà, ma il luogo della fine di ogni speranza. I lavori sono perlopiù a contratto e il Tokyese medio preferisce di gran lunga diventare un フリーター piuttosto che darsi alla vita da salaryman.

L’abbandono della casa familiare corrispondeva in passato all’incirca con le nozze. Fine degli studi, inizio del Lavoro (con la L maiuscola), addio alla casa dell’infanzia, matrimonio. Questi eventi erano strettamente legati e quasi imprescindibili negli anni 70’ e 80’, ma oggi le cose sono cambiate. Si guadagna di meno e ci si sposa più tardi; risultato, abbandonare le comodità della vita in famiglia appare anche ai coetanei nipponici tutto sommato una scelta discutibile.

E poi ci sono le mamme. La colpa è sempre delle mamme! Protettive, amorose, onnipresenti, le madri giapponesi viziano i loro figliuoli almeno quanto le nostre, in particolare da quando la famiglia media in Giappone non si concede che un solo figlio. Viziati fino all’inverosimile i giovani giapponesi sono assai più 我が儘 di quanto non si crederebbe. Non sanno cucinare, in casa non fanno nulla e anche a scuola sono spesso difesi da questi genitori ultraprotettivi. Così protettivi da essersi recentemente meritati l’appellativo di "monster parents" (モンスターペアレント), argomento di cui parlerò più dettagliatamente in un altro post. I professori non sanno più cosa fare, i ragazzini sono intoccabili e quando succede qualcosa è diventato più conveniente chiudere un occhio che mettersi contro i genitori mostro. Risultato: i casi di bullismo giovanile sono in crescita.

Che ne sarà di questi ragazzini viziati? Che si meritino davvero l’appellativo di parassiti?

lunedì 19 dicembre 2011

Mi sposo o aspetto ancora un po'?





È vero, in Giappone ci si sposa sempre più tardi. E questo è soprattutto vero per le aree urbane dove i dati ci mostrano un realtà di single in aumento. Nel 2005 il 33% delle donne in età compresa tra i 35 e i 39 anni e il 12% degli uomini in età compresa tra i 40 e i 44 erano single. E se per noi europei questi dati non appaiono poi così sconvolgenti bisogna ricordarsi che in Giappone fino a non più di un paio di decadi fa la situazione appariva completamente diversa. L’età media per il matrimonio si aggirava attorno ai 22 anni (praticamente subito dopo la fine degli studi) e il numero di single ultratrentenni era del tutto irrisorio. Cosa è successo nel frattempo? I Giapponesi hanno scopeto che si sta bene da single? Che il matrimonio porta guai? Non proprio.

Secondo un sondaggio del 2005 il 90% delle donne intervistate in età compresa tra i 18 e I 34 anni dichiara di volersi sposare presto. L’idea è che le donne giapponesi desiderino sposarsi ma qualcosa le ostacoli. Che succede?

Tutto comincia negli anni 90’. E precisamente dopo la crisi economica del 1991, data importante che segna una rottura decisiva nella storia del Giappone contemporaneo. La crisi del 91’ infrange innanzitutto un mito, quello della crescita. Il Giappone non sarà più lo stesso soprattutto per gli stessi giapponesi – una sorta di trauma psicologico nazionale. Ma le conseguenze si fanno vedere anche nei fatti: stipendi stagnanti, disoccupazione e – cosa più importante per quest’analisi – l’ingresso delle donne nella forza lavoro.

Dal dopoguerra fino agli anni 90’ il modello di famiglia cittadina è pressoché costituito da un salaryman stipendiato che lavora tutto il giorno, una moglie mamma e casalinga, un paio di pargoletti. Dagli anni 90’ in poi tuttavia questo modello di famiglia si rivela sempre più insostenibile. Il problema è chiaro: gli stipendi sono semplicemente insufficienti a mantenere un’intera famiglia.

Cosa succede? Finalmente anche le donne, finora segregate al ruolo di mamme-massaie, intraprendono il loro processo di emancipazione. Amen. 
E così fu; negli ultimi vent’anni il numero di donne lavoratrici è cresciuto sensibilmente guadagnando alle donne – oltre ai soldi – una maggiore indipendenza e dignità.
Primo effetto: le donne sono più indipendenti, non hanno bisogno di un marito come fonte di reddito. Il matrimonio non è più una necessita. 楽しみましょう!

Eppure questa spiegazione non rende conto di tutte quelle donne lavoratrici che vorrebbero comunque sposarsi e non lo fanno. Perché? La risposta giace nelle credenze idiote del Giappone (contemporaneo). L’idea è la seguente: una donna ha il dovere di sposarsi e avere figli ai quali una volta sposata dovrà dedicarsi totalmente, marito incluso (che di fatto diventa poi un vero e proprio figlio). Non ci sarà tempo per un altro lavoro. Se hai anche un Lavoro vuol dire che sei una pessima madre, una pessima moglie e probabilmente una pessima lavoratrice. だめ!
Ma se questa fosse solo la convinzione di qualche vecchio conservatore non ci sarebbero problemi. Il problema invece è che questa è davvero la mentalità diffusa in Giappone, in particolare in ambiente corporativo (anche nelle grandi città, luoghi dove in teoria dovrebbe aleggiare un’atmosfera un po’ più progressista. …ma d'altronde si sa, il Giappone rimane un'isola!).

Le donne non si sposano perché nella maggior parte dei casi ciò comporterebbe la perdita del proprio impiego. Come? Semplice; nella tradizione più squisitamente nipponica del “licenziamento suggerito” una donna che si sposa (o che rimane incinta che è poi la stessa cosa come spiegherò) sarà gentilmente invitata a lasciare il proprio lavoro. Che fare dunque? Mi sposo o spetto ancora un po’?

Ma attenzione, perché aspettare troppo a lungo porterebbe rivelarsi pericoloso. Sì perché alla soglie dei trent’anni per una donna nubile avviene la trasformazione. Come i sayan si trasformano in enormi scimmioni nelle notti di luna piena, così le donne giapponesi si trasformano in makeinu (負け犬)
Ebbene sì, letteralmente dei "cani perdenti". Perdenti perché non hanno saputo accasarsi, perdenti perché non hanno ancora contribuito alla società dando alla luce dei figli. Perché in Giappone la procreazione è davvero considerata un valore civico. Chi non sforna bambini non sta facendo il suo dovere nei confronti del paese. Una trasformazione totale insomma; una nuova pelle sociale, un nuovo marchio al pari di un nuovo sesso.

Questa mentalità è stata promossa a tutti i livelli e più che mai da quando il paese ha problemi di bassi tassi di fertilità. In Giappone vale la seguente equazione: matrimonio = figli. Le due cose sono quasi indistinguibili; un matrimonio senza figli è semplicemente okashii.

E chi non si sposa, chi non figlia, è un irresponsabile. A questo riguardo segnalo un libro (più che altro un manifesto!) molto famoso e discusso in Giappone: Onibaba-ka suru Onna-tachi ("donne che diventano vecchi demoni"…wow!). Questo manifesto della “vera donna” è stato scritto (incredibile!) da un’illuminata professoressa dello Tsuda College. 
Miss. Misago Chizuru è assai dettagliata nel ricordare alle donne giapponesi i loro doveri. Ci racconta di come per le donne la possibilità di avere figli sia da considerare “un dono” e di come le donne che rifiutano il loro dovere debbano essere etichettate per ciò che sono: persone egoiste e immature. Dei veri e propri makeinu insomma.

E non è così facile dire “me ne frego”. C’è chi lo fa in questo e altri contesti, ma di fatto in questo paese il peso della stigma sociale è opprimente e si fa sentire con una forza per noi difficilmente comprensibile. Il sistema è ineludibile, non si sfugge alla macchina!

Parlando di matrimoni non bisogna poi dimenticarsi dei doveri “secondari” della sposa: la cura degli anziani. E non dei propri genitori (cosa che magari uno si sente di fare se non altro per riconoscenza!), ma di quelli del marito. Una postilla contrattuale da non sottovalutare soprattutto considerato il fattore suocera.

E poi ci sono ovviamente gli uomini. I nostri poveri, ora davvero poveri, salaryman. Oggi giorno è dura trovare un buon lavoro, il vecchio impiego vitalizio è una bestia rara di questi tempi e il giapponese medio si guarda bene dallo sposarsi prima di aver trovato la propria stabilità finanziaria. Stabilità che, per inciso, significa avere abbastanza soldi per mantenere figli e moglie a casa. L’uomo è quello che porta a casa il cash. Se non hai il cash non sei un vero uomo. Parola di samurai del ventunesimo secolo.

I Giappi sono insomma inguaiati. Molti ci hanno rinunciato, hanno persino detto di no all’impiego a vita e alla fedeltà aziendale e si sono fatti フリーター a vita. Ma chi ripopolerà il nostro nippon? E chi manterrà viva la tradizione di sposalizi standard?

In attesa di risposte io aspetto ancora un po’.

domenica 18 dicembre 2011

Non è un paese Per vecchi. Ma non era un paese Di vecchi…?





Ebbene sì, non siamo noi il paese più vecchio. E qui non si parla di geologia ma di vecchi – di anziani, per essere politically correct. Il Giappone ci batte su tutta la linea. Con una popolazione di 127milioni di abitanti (vs i 60qualcosa dell’Italia) e una percentuale del 22.6% di over 65, il paese del sol levante può a buon diritto definirsi uno dei più grandi covi di vecchiacci su scala planetaria.

I Giappi, si sa, mangiano bene (almeno i vecchi). Poco olio, poca pasta, poco sale. E il loro regime alimentare, insieme a un sistema sanitario efficiente, garantisce aspettative di vita record: dati aggiornati al 2010, 85.8 anni per le donne e 79.4 per gli uomini.

E allora? Questo è un trend diffuso anche in Europa e in generale in tutti i cosiddetti “paesi sviluppati”. Non proprio. Perché in Giappone, a partire dagli anni del boom economico, la struttura sociale e familiare è stata rivoluzionata a tal punto che il paese si trova oggi del tutto impreparato ad affrontare le copiose orde di grinzosi nonnetti.

Ma dove sono tutti gli anziani? A Tokyo non se ne vedono poi tanti. A Osaka e Kobe neppure. Dove si rifugiano questi succhia tasse, questi cospiratori demografici? La risposta è semplice: inaka. Inaka (田舎) in Giapponese significa letteralmente campagna. Ma qui il significato di campagna è un tantino diverso. Per farsene un’idea basta osservare l’immagine qui sotto.




In Giappone sulle montagne non si vive. Perché ci sono gli spiriti (giuro). In città ci stanno i 2/3 della popolazione, tutta bella compressa. E nel resto del paese, in quegli splendidi paesaggi fatti di fior di ciliegio, vette innevate e scogliere sull’oceano, proprio laggiù si rifugiano i nonni del sol levante. I giovani sono davvero giovani, bambini per lo più. I ragazzi invece…beh, quelli appena possono se ne vanno. O sarebbe meglio dire che fuggono urlando. Sì, perché in queste città fantasma popolate da anziani per un ragazzo la vita si fa dura. Posso testimoniare di almeno tre amici americani che vennero spediti by Jet Program in alcune di queste lande della desolazione e in meno di un mese si ritrovarono vittime di fenomeni quali depressione acuta – e – bisogno di civiltà.

Come si pagheranno tutte queste pensioni? Come verrà garantita la crescita economica in un contesto di decrescita demografica? Chi lavorerà visto che in Giappone non ci si vuole affidare all’immigrazione per mantenere la razza pura? 

Ma queste sono domande da economisti. E magari ne parlerò in qualche altro post ma quello di cui vorrei discutere oggi è un altro tema – ovvero – come sono percepiti e accuditi gli anziani in Giappone? In che modo gli sconvolgimenti del sistema familiare hanno reso insostenibile il sostegno domestico degli anziani a favore delle cosiddette case di riposo?

Torniamo al boom economico. Sono gli anni sessanta. Il Grande Giappone (大日本) è inarrestabile. Le città crescono, gli stipendi pure. I Giappi sono potenti, il mondo li rispetta e li teme. Nasce un modello di lavoratore urbano. Un nome destinato a diventare simbolo dell’intero paese. Il mitico, mistico salaryman (サラリーマン). L’uomo del salario. Il colletto bianco, l’impiegato, il kaishyain. In una parola il Giappo tipo. Se c’è uno stereotipo totalmente assodato nell’immaginario collettivo per quanto riguarda il Giappone, quello è di certo il salaryman. Giacca, cravatta dal nodo impeccabile, camicia bianchissima. Occhio vitreo, capelli ormai brizzolati a trent’anni. Se ne sta nel treno, solitario, in piedi appeso, compresso o seduto, non importa. Sta dormendo. Sì perché sono le otto di sera è lui è sveglio dalle cinque di questa mattina. Una vita dura. Una vita di sacrifici. Ma non importa. Perché il paese è forte. La compagnia cresce. E il dovere di un uomo non è verso la propria famiglia (ma figuriamoci), ma verso la propria azienda e il proprio paese.

Il salaryman di fatto non è il giapponese tipo. Se per tipo=tipico si intende quello più diffuso in numero, bisogna ammettere che il giapponese tipo è (sorpresa) un vecchio o un colletto blu di una città medio piccola in qualche prefettura dell’honshu. Ma tipico o no, il salaryman di fatto una rivoluzione l’ha portata a termie. Ha creato un mito. Il mito dello stipendio che s’invola, il mito del lavoratore urbano, il cittadino per antonomasia. E ha inoltre creato uno spostamento 1) di gente, dalla periferia alla città 2) del modello di famiglia, da patriarcale a nucleare (che non vuol dire esplosiva).

La vecchia famiglia patriarcale è basata sul cosiddetto "ie (家) system". Un complesso groviglio di relazioni di dipendenza, fedeltà, vincoli, eredità e alleanze. Al di là della complessità per ciò che concerne matrimoni, discendenze e lignaggi, ciò che rendeva il sistema tradizionale sostenibile e riproducibile per la terza età era la sua imprescindibilità. La moglie del primogenito maschio, la yome, era destinata ad ereditare il nome della famiglia ospite e al tempo stesso il fardello dei genitori del marito. La yome era responsabile delle loro cure fino alla loro morte, momento nel quale sarebbe finalmente diventata capofamiglia a tutti gli effetti (sempre all’ombra del marito ovviamente, ma comunque una presenza assai meno opprimente del dominio dei vecchi).

Oggi le cose si complicano. Il primogenito maschio è generalmente anche l’unicogenito e lo stesso vale per la consorte, che certamente non potrà essere responsabile sia per i propri genitori che per quelli del marito. Eppure queste sono le aspettative. E le donne allora che fanno? Semplice, non si sposano più. Nelle aree urbane l’età media per il matrimonio si aggira su i 32 anni per le donne e i 34 anni per gli uomini mentre nelle aree rurali è anticipata di almeno una decade. Ovviamente questa non è la sola ragione per matrimoni ritardati in città, ma di certo dal punto di vista delle sofisticate donne urbane il matrimonio perde una discreta parte della sua appetibilità. Il Giappone si sa, è un paese sessista. E cioè un paese dove le discriminazioni tra uomo e donna persistono imperterrite pure peggio che da noi. E la cura degli anziani non fa eccezione; le stime indicano che ad oggi, circa l’ottanta percento di questi lavori è effettuato da donne.

Al di là del nuovo modello di famiglia urbana introdotto dagli anni sessanta, un grosso problema è inoltre rappresentato dalla rinnovata idea di vicinato. In Giappone, anche nelle città, il vicinato ha da sempre occupato un ruolo chiave per quanto riguarda l’educazione dei bambini, il supporto agli anziani, la sicurezza ecc. Oggi non più. I valori individualistici moderni hanno pressoché annullato il ruolo giocato dal vicinato e l’anziano è ora considerato non più parte della comunità, ma fardello privato della famiglia.
Chi sono i vecchi oggi? Emarginati, residuali alla vita, una terza età, di fatto un terzo mondo. Nascosti perché imbarazzanti i vecchi stessi hanno imparato a vergognarsi di sé stessi e, almeno in Giappone, a nutrire sempre meno speranze di poter spendere gli ultimi anni delle loro vite con i propri cari. Il vecchio samurai non vuole essere compatito, non vuole essere di peso. Meglio sparire, celato in qualche casa di riposo magari accudito da un super evangelion.

In Giapponese c’è un termine per indicare quella terribile esperienza che è la cura di un anziano da parte di un figlio unico: kaigojigoku (介護地獄), ovvero "l’inferno della cura dei vecchi". I casi di violenza su anziani sono andati crescendo costantemente negli ultimi decenni proprio per l’impossibilità da parte di individui soli di affrontare situazioni di questo tipo. E ciò è comprensibile. Quando scompare la famiglia allargata e poi scompare anche il sociale, la vecchia non può che apparire a tutti come un vero e proprio inferno. Il Governo Giapponese, per porre un freno al problema, ha persino approvato una legge per prevenire gli abusi, la “Law for the Prevention of Elderly Abuse and Support” del 2005. Neanche a dirlo, il problema non si risolve a colpi di leggi perché le sue radici sono altrove, e cioè nella struttura sociale.

Di pensioni non parlo neanche. Tanto si sa che non va mai bene niente.
Di robot per vecchi invece parlerò più approfonditamente perché si dà il caso che questo sia tra i miei soggetti preferiti nonché progetto di tesi di laurea^^

Concludo con un aneddoto. Nell’antico giappone cosa si faceva coi vecchi? Di certo erano più rispettati di oggi. Anzi, erano di fatto la saggezza incarnata. Basta guardare un film di Kurosawa per farsi un’idea del ruolo comunitario giocato degli anziani, i capivillaggio. Ma cosa accadeva quando il vecchio iniziava a perdere qualche rotella? Una volta si viveva di meno ma casi di demenza senile non erano del tutto assenti. Beh, la soluzione è pratica quanto barbara. Il nonno veniva portato nel bosco, veniva scavata una buca abbastanza profonda perché non potesse uscirne, e veniva abbandonato lì con un po’ di sake e qualche onigiri. Sayonara ojiisan!