domenica 22 gennaio 2012

Mio figlio è un Hikiko… è solo un po’ timido.




Più o meno chi sono gli hikikomori lo sanno tutti: gli alienati sociali, gli agorafobici, i ritirati a vita. Di fatto per scovarli non bisogna andare fino in Giappone. Di amici così ne ho un paio anch’io; se ne stanno in casa tutto il giorno, smangiucchiano snack, sfumacchiano, come migliori amici si ritrovano videogiochi, serie tv e utube. E allora che c’è di diverso in Giappone? Innanzitutto i numeri. I dati – ufficiali e non – segnalano la presenza di almeno un milione di questi individui: ciò corrisponde ad un buon 1% della popolazione totale e oltre il 3% della popolazione “giovane”. Il fenomeno è infatti caratteristico dei giovani con un picco nell’età compresa tra i venti e i trent’anni.

Ma chi sono costoro? Qual è il limite che divide “un tipo un po’ asociale” da un hikikomori? La prima difficoltà parlando di hikikomori sta proprio nella loro definizione. Non trattandosi di una patologia vera e propria, nessun documento ufficiale ha mai sancito l’identikit dell’hikikomori doc e di conseguenza anche le statistiche indugiano.

Il fatto è: che palle le definizioni! In fondo con le parole si gioca, non si mettono in piedi equazioni. La solita domanda obesa: “Cosa intendi esattamente per…?” “Dai che hai capito cosa intendo…” Le parole, soprattutto in contesti sociologici&antropologici, andrebbero al massimo intese come “strumenti operativi”. L’hikikomori non è un atomo di carbonio e nemmeno la radice di 5, è un “tipo”, un “individuo tipo”. Ci si può tendere più o meno senza mai giungerci davvero – un po’ come un logX^^

E così saltiamo con classe la definizione pallosa.

Dove li posso trovare? Un po’ dappertutto. Soprattutto nelle aree urbane e in famiglie benestanti (ma il Giappone non era poi tutto middle class?). I soldi dopotutto contano eccome. Come si fa se no a mantenere un piccolo hikikomori? Non avranno grandi spese ma di certo mangiano e qualche manga o videogioco dovranno pur comprarselo!

Ovviamente il problema con gli hikikomori non è unicamente finanziario. A parte il rappresentare un fardello sociale, l’hikiomori è innanzitutto un dramma in ambito familiare. A parte lo “spillaggio monetario”, gli esempi più estremi testimoniano casi di violenza e dispotismo domestici. I giovani zombie iniziano con l’occupare aree sempre più ampie della casa fino a giungere al confinamento dei familiari in zone prestabilite.

Se l’idea diffusa di individui totalmente barricati in casa non è di certo esaustiva, è tuttavia confermato che la maggior parte di questi individui condividono comportamenti analoghi. Sospensione di attività sociali quali scuola o lavoro, sostituzione del giorno con la notte, isolamento da coetanei e familiari. Nei casi più radicali un hikikomori potrà giungere ad un totale rifiuto di interagire con altri esseri umani. È vero d'altronde che non tutti sono così. Alcuni escono di casa (preferibilmente di notte) per acquistare cibo in qualche kombini e talvolta intrattengono relazioni più o meno sporadiche con familiari e amici.

Come relazionarsi con un figlio hikikomori? In Giappone, ammesso che il problema abbia “soluzioni” buone e cattive, la cosa è di certo affrontata nel peggiore dei modi. E cioè facendo finta di niente. Ancora una volta il peso dello stigma sociale si fa sentire con tutta la sua forza in una società fortemente normalizzata come quella giapponese. Una coppia di genitori, fin quando possibile, preferirà infatti tacere il problema piuttosto che chiedere aiuto. Il fatto è che in Giappone la sola idea di terapia è del tutto aborrente. Lo psichiatra è un alchimista sadico e lo psicologo un ciarlatano. Non che la psicoanalisi abbia mai fatto miracoli, ma è interessante notare come a differenza del nostro “occidente dell’inconscio”, in Giappone una cultura psicoanalitica non abbia mai attecchito. Un fatto interessante che mi sono ripromesso di affrontare in un altro post.

Comunque, il fatto è che i genitori di un hikikomori si vergognano e non parlano. Almeno finché la faccenda non si fa insostenibile. E qui comincia la terapia. I due tipi più diffusi sono i cosiddetti “gruppi parentali” (oya no kai) e i “gruppi familiari” (kazoku kai). Queste riunioni, coadiuvate da uno psicologo, rappresentano un’importante fonte di sostegno per i genitori più di quanto non lo siano per gli stessi hikikomori. Qui i genitori possono confrontarsi con altre famiglie nella stessa situazione scoprendo così di non essere soli né tantomeno “speciali”. I gruppi aiutano inoltre le famiglie a prendere consapevolezza della condizione dei propri figli. Il fatto più interessante è che questi individui, finalmente sottoposti ad analisi, si rivelano spesso affetti da psicosi (schizofrenia ecc.) o disturbi della personalità (manie di persecuzione ecc.). Spesso l’adozione di una semplice etichetta medica cambia completamente la prospettiva sul proprio figlio che da “anormale” si trasforma in “malato”. Il solo realizzare e accettare lo stato patologico del figlio fornisce un forte incentivo per i genitori che non si sentiranno più colpevoli ma al massimo sfortunati.

La domanda che nasce spontanea: perché tutti questi hikikomori in Giappone? I vari esperti sono perlopiù concordi nel non imputare il fenomeno a singole cause ma a una concomitanza di fattori. Di certo, osservando il Giappone dall’esterno, si può notare come in una società così rigida e controllata possa avvenire più facilmente che un individuo si ritrovi tagliato fuori. Una volta “perso il passo”, ambito scolastico o lavorativo che sia, è pressoché impossibile rimettersi in carreggiata; una persona fragile o insicura preferirà ritirarsi totalmente da una società in cui non è stato in grado di inserirsi come da lui ci si aspettava.

Aspettative e conformismo. Fallimento e reclusione. In poche parole si può riassumere il dramma di una società che dell’omogeneità ha fatto un regime, e della normalità la più insidiosa delle catene.

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