Più o meno chi sono gli
hikikomori lo sanno tutti: gli alienati sociali, gli agorafobici, i ritirati a
vita. Di fatto per scovarli non bisogna andare fino in Giappone. Di amici così
ne ho un paio anch’io; se ne stanno in casa tutto il giorno, smangiucchiano
snack, sfumacchiano, come migliori amici si ritrovano videogiochi, serie tv e utube. E
allora che c’è di diverso in Giappone? Innanzitutto i numeri. I dati – ufficiali
e non – segnalano la presenza di almeno un milione di questi individui: ciò
corrisponde ad un buon 1% della popolazione totale e oltre il 3% della
popolazione “giovane”. Il fenomeno è infatti caratteristico dei giovani con un
picco nell’età compresa tra i venti e i trent’anni.
Ma chi sono costoro? Qual
è il limite che divide “un tipo un po’ asociale” da un hikikomori? La prima
difficoltà parlando di hikikomori sta proprio nella loro definizione. Non
trattandosi di una patologia vera e propria, nessun documento ufficiale ha mai
sancito l’identikit dell’hikikomori doc e
di conseguenza anche le statistiche indugiano.
Il fatto è: che palle le
definizioni! In fondo con le parole si gioca, non si mettono in piedi
equazioni. La solita domanda obesa: “Cosa intendi esattamente per…?” “Dai che
hai capito cosa intendo…” Le parole, soprattutto in contesti sociologici&antropologici,
andrebbero al massimo intese come “strumenti operativi”. L’hikikomori non è un
atomo di carbonio e nemmeno la radice di 5, è un “tipo”, un “individuo tipo”.
Ci si può tendere più o meno senza mai giungerci davvero – un po’ come un logX^^
E così saltiamo con
classe la definizione pallosa.
Dove li posso trovare? Un
po’ dappertutto. Soprattutto nelle aree urbane e in famiglie benestanti (ma il
Giappone non era poi tutto middle class?). I soldi dopotutto contano eccome.
Come si fa se no a mantenere un piccolo hikikomori? Non avranno grandi spese ma
di certo mangiano e qualche manga o videogioco dovranno pur comprarselo!
Ovviamente il problema
con gli hikikomori non è unicamente finanziario. A parte il rappresentare un
fardello sociale, l’hikiomori è innanzitutto un dramma in ambito familiare. A
parte lo “spillaggio monetario”, gli esempi più estremi testimoniano casi di
violenza e dispotismo domestici. I giovani zombie iniziano con l’occupare aree
sempre più ampie della casa fino a giungere al confinamento dei familiari in
zone prestabilite.
Se l’idea diffusa di
individui totalmente barricati in casa non è di certo esaustiva, è tuttavia
confermato che la maggior parte di questi individui condividono comportamenti
analoghi. Sospensione di attività sociali quali scuola o lavoro, sostituzione
del giorno con la notte, isolamento da coetanei e familiari. Nei casi più radicali
un hikikomori potrà giungere ad un totale rifiuto di interagire con altri
esseri umani. È vero d'altronde che non tutti sono così. Alcuni escono di casa
(preferibilmente di notte) per acquistare cibo in qualche kombini e talvolta intrattengono relazioni più o meno sporadiche
con familiari e amici.
Come relazionarsi con un
figlio hikikomori? In Giappone, ammesso che il problema abbia “soluzioni” buone
e cattive, la cosa è di certo affrontata nel peggiore dei modi. E cioè facendo
finta di niente. Ancora una volta il peso dello stigma sociale si fa sentire
con tutta la sua forza in una società fortemente normalizzata come quella giapponese. Una coppia di genitori, fin
quando possibile, preferirà infatti tacere il problema piuttosto che chiedere
aiuto. Il fatto è che in Giappone la sola idea di terapia è del tutto
aborrente. Lo psichiatra è un alchimista sadico e lo psicologo un ciarlatano.
Non che la psicoanalisi abbia mai fatto miracoli, ma è interessante notare come
a differenza del nostro “occidente dell’inconscio”, in Giappone una cultura
psicoanalitica non abbia mai attecchito. Un fatto interessante che mi sono
ripromesso di affrontare in un altro post.
Comunque, il fatto è che
i genitori di un hikikomori si vergognano e non parlano. Almeno finché la faccenda
non si fa insostenibile. E qui comincia la terapia. I due tipi più diffusi sono
i cosiddetti “gruppi parentali” (oya no
kai) e i “gruppi familiari” (kazoku
kai). Queste riunioni, coadiuvate da uno psicologo, rappresentano
un’importante fonte di sostegno per i genitori più di quanto non lo siano per
gli stessi hikikomori. Qui i genitori possono confrontarsi con altre famiglie
nella stessa situazione scoprendo così di non essere soli né tantomeno “speciali”.
I gruppi aiutano inoltre le famiglie a prendere consapevolezza della condizione
dei propri figli. Il fatto più interessante è che questi individui, finalmente
sottoposti ad analisi, si rivelano spesso affetti da psicosi (schizofrenia ecc.)
o disturbi della personalità (manie di persecuzione ecc.). Spesso l’adozione di
una semplice etichetta medica cambia completamente la prospettiva sul proprio figlio
che da “anormale” si trasforma in “malato”. Il solo realizzare e accettare lo
stato patologico del figlio fornisce un forte incentivo per i genitori che non
si sentiranno più colpevoli ma al
massimo sfortunati.
La domanda che nasce
spontanea: perché tutti questi hikikomori in Giappone? I vari esperti sono
perlopiù concordi nel non imputare il fenomeno a singole cause ma a una
concomitanza di fattori. Di certo, osservando il Giappone dall’esterno, si può
notare come in una società così rigida e controllata possa avvenire più
facilmente che un individuo si ritrovi tagliato
fuori. Una volta “perso il passo”, ambito scolastico o lavorativo che sia,
è pressoché impossibile rimettersi in carreggiata; una persona fragile o
insicura preferirà ritirarsi totalmente da una società in cui non è stato in
grado di inserirsi come da lui ci si
aspettava.
Aspettative e conformismo.
Fallimento e reclusione. In poche parole si può riassumere il dramma di una
società che dell’omogeneità ha fatto un regime, e della normalità la più insidiosa
delle catene.
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