sabato 25 febbraio 2012

Pater Familias




Ai giovani d’oggi servono modelli forti. Modelli in famiglia innanzitutto. Genitori presenti, genitori che sappiano fare da guida ai propri figli. Soprattutto servono dei papà. Per favore padri del Giappone, siate almeno dei padri decenti!

Questo è il riassunto di quella retorica istituzionale, governativa o pseudo tale, che negli ultimi 10-15 anni ha reclamato a gran voce un ritorno dei padri giapponesi in quel luogo, spesso dimenticato, noto anche come famiglia. Una retorica forzata e pure risibile considerato che a queste testimonianze di buona volontà dello stato “paternalista” non fanno seguito politiche concrete, riforme capaci di riportare al focolare domestico gli stacanovistissimi uomini del sol levante.

Che storia è questa? Cosa c’è che non va con i papà giapponesi? Detto in tre parole: non ci sono. Non dove dovrebbero (ma giusto un pochino!); e cioè a casa, magari per cena o semplicemente a fare due chiacchiere con moglie e figli. Uno studio governativo del 1999 mostrava una media di 17 minuti al giorno spesi dai padri giapponesi con i propri figli. Non proprio un granché. In Giappone, causa ancora una volta il disagio giovanile come principale (presunto) indicatore di un malfunzionamento del modello familiare, quello dei padri assenteisti (chichioya fuzai) rappresenta un tema caldo dalla fine degli anni 80’.

Non è un segreto, in Giappone si lavora sodo. Si lavora così tanto che per il salariman medio il ritorno a casa si trasforma in un evento random, una sorta di contingenza quantistica. Non c’è legge sull’orario massimo di lavoro che tenga, nessuno può sottrarsi all’unica vera legge non scritta: una volta dentro sei roba loro. “Dicevano di aver trovato un lavoro, di fatto era il lavoro ad averli trovati e loro ad esserglisi venduti”: mai tale verità fu più vera che qui in Giappone.

Passo indietro. La kaisha. In giapponese kaisha (会社)significa compagnia, azienda, ditta (che brutto ditta!). Ma in giapponese kaisha può spesso significare famiglia. Famiglia sul serio: ci sono i membri, le gerarchie, le amicizie… E per il vero uomo giapponese, la vera famiglia è quella aziendale, il luogo in cui andranno riversate tutte le proprie energie, attenzioni e relazioni sociali. Perché? Perché qui dedizione e lealtà sono virtù fondamentali e arruolandoti, l’azienda, questa nuova casa che ti accoglie con tutto il suo amore, ti sta facendo un onore così grande che l’unico modo per ripagarla sarà di venderle l’anima.

Ok, sto esagerando un po’. Di fatto però la mentalità diffusa, lo si voglia ammettere o meno, si avvicina terribilmente a questa descrizione. A un sondaggio del 2003 dove si domandava se un “vero uomo” potesse vivere per la propria famiglia, oltre il 40% rispondeva di no.

Ma chi è il “vero uomo” in Giappone? I modelli di mascolinità non mancano proprio. A dire il vero ce n’è così tanti in circolazione che si fatica a stabilire quello dominante. E se ciò può apparire abbastanza buffo agli occhi del turista occidentale, spesso stupito dell’effeminatezza della popolazione maschile nipponica, bisogna ricordarsi che la mascolinità non ha nulla a che fare con la natura e tutto a che fare con la cultura. Essere modaioli è da effemminati? Rifarsi le sopracciglia è “gay”? Chissà. Di certo in Giappone l’idea dominante è che occuparsi dei figli o non ammazzarsi di lavoro non è “maschio100%”.

E la paternità s’inserisce perfettamente nel discorso sulla mascolinità. Fino alla seconda metà degli anni 90’ c’era da rimanere sorpresi per la monotonia della retorica pro-padre diffusa dai mass media e dallo stesso mondo accademico. Il problema, spesso trattato secondo il late motif dell’autorità paterna (fusei no ketsujo), veniva perlopiù affrontato resuscitando modelli perduti di figure paterne tradizionali. Tipico il più nostalgico ganko-oyaji, il padre da osservare, il padre guida; sarà di poche parole e le sue spalle possenti, le spalle dell’uomo che lavora, forniranno un’immagine indelebile, un modello per la vita. Più folcloristico il kaminari-oyaji, il “padre fulmine”, duro e puro, tosto e cazzuto; il meglio per i giovani smidollati!

Gira e rigira, di mezzo il lavoro c’è sempre. Il lavoro nobilita l’uomo, giusto?
Va bene il lavoro, va bene la dedizione ecc, ma come si è potuto arrivare al punto di non ritorno? Non è tanto un fatto culturale: “i giapponesi sono masochisti” Non è nemmeno genetica: “i giapponesi sono masochisti – ce l’hanno nel dna”. Mentre la seconda ipotesi non merita commenti, la prima richiede invece una parentesi – il vecchio dilemma “ma cos’è cultura?”. Cultura è una parola un po’ vaga. Cercando di definirla ci si ritrova spesso smarriti nel tentativo di far funzionare argomentazioni contorte (per non dire tautologiche). Tenendosi vaghi – e sicuri –, nel tentativo di spiegare l’attuale stato di cose direi (con una buona dose di politically correctdeness) che le contingenze storiche, anche grazie a un terreno culturale fertile (ma allora ci risiamo!) hanno portato all’instaurarsi di una particolare mentalità aziendale/manageriale e che tale mentalità, consolidatasi come standard (ed etichettata sotto la voce cultura), è diventata difficilmente sostituibile. Se anche il neo shakaijin non fosse proprio nell’ottica, se anche il giovane salariman in erba partisse con tutte le migliori intenzioni di fancazzismo, si troverebbe comunque preso in trappola. Quello che si osserva nel Giappone contemporaneo è pura struttura: la gabbia d'acciaio.

In Giappone la cultura aziendale è nata di fatto nel dopoguerra, negli anni duri in cui bisognava ricostruire tutto, riportare il grande paese agli antichi splendori (questa volta però senza imperatore e senza impero). È in questi anni che l’ideale di fedeltà alla compagnia si innesta come nuova declinazione di quella morale samuraiesca che nella prima metà del 900’ faceva dell’individuo un vassallo dell’impero. E in fondo la kaisha è di fatto il tramite per restaurare l’onore e la forza della nazione.

In quegli anni, con la nascita del modello di lavoratore urbano e la diffusione della famiglia ristretta, si stabilisce un nuovo standard: l’uomo lavora tutto il giorno mentre la donna cura la casa e accudisce i figli.
Che idea brillante! Come poteva non pensarcisi? Questo è senza dubbio il modello migliore per dare alla luce famiglie unite, all’insegna della parità dei sessi e soprattutto per garantire padri presenti. Beh, la classe politica ultimamente ci sta ripensando perché si è accorta che le cose non funzionano poi così bene. E non tanto perché questo bel modello fa scempio della famiglia, ma perché oggi ci sono fattori economici e demografici che premono. Primo problema, il basso tasso delle nascite. I giapponesi non figliano; le statistiche indicano, dati aggiornati al 2011, una media di 1.3 figli per coppia. E non tutte le coppie possono o decidono di avere figli. Di fatto il Giappone è in piena decrescita della popolazione e la piramide demografica si sposta a ritmi preoccupanti verso la terza età. Come fare a stimolare a fare più figli?^^ Dove stimolare?^^ Dov’è l’intoppo?

Ecco il problema! Era così ovvio…le donne! Sempre le donne. Queste frigide ingrate non vogliono più sfornare bambini. Egoiste e ingrate, pensano che non sia il caso di fare un figlio perché il marito non sarà mai a casa… Che idea, ovvio che no, se no chi porta a casa la pagnotta? Vabbè, visto che proprio non si riesce a convincerle ci toccherà promuovere qualche campagna mediatica pro-papà. Un paio di spot pubblicitari, qualche brochure a domicilio…et voila! Dai papà, su che ce la puoi fare!

Sorpresa, non ha funzionato.

Mentre si è speso parecchio in campagne mediatiche, poco è stato fatto sul versante concreto delle riforme, riforme capaci di rivoluzionare la cultura aziendale e le pratiche lavorative in genere. Uno studio del 1996 mostrava come solo lo 0.16% degli aventi diritto avesse sfruttato le ore libere retribuite (accordate per legge) per la cura dei figli. Durante la seconda metà degli anni 90’ e nel nuovo millennio nuove leggi sono state approvate, ma in pratica poco è stato fatto per smuovere i poteri forti del paese, quelli che continuano a promuovere e riprodurre le vecchie abitudini.

Per quante leggi sull’orario massimale (o sulle vacanze retribuite) si possano introdurre, se il capo ti vuole in ufficio fino a sera c’è poco da fare. A chi serve un impiegato in ufficio alle dieci di sera? A nessuno. Ma se per puro caso qualcuno decidesse di telefonare a quell’ora, sarebbe decisamente un pessimo segnale il sentirsi dire da segreteria telefonica che l'ufficio è chiuso. 
Sì, ma… è tardi e di solito a quest’ora…” Balbetta il neo-assunto, ingenuo impiegato. 
No, no, no. Non hai capito. È una questione di principio, una questione di buone maniere.

La partecipazione forzata, la presenza per la presenza, l’esserci per l’esserci: si fa atto di lavoro come si fa atto di fede. Non solo prestazione, ma innanzitutto socializzazione. Il lavoro come istanza sociale è giunto da tempo ben al di la della mera “produzione” e qui in Giappone lo sanno da tempo (Baudrillard docet). Finita l’era della produzione, benvenuti nell’era della socializzazione forzata! (mi ricorda qualcosa…ah sì, Facebook…) Ma sto divagando. La cultura aziendale giapponese richiede sicuramente un’analisi approfondita che magari tenterò in un altro post.

Che cosa è cambiato nell’ultimo decennio? Qualcosa di certo. I padri giapponesi sono più presenti e la stessa retorica pro-padri si è arricchita di nuove prospettive rispetto anni 90’. Come dire, sembra quasi che i giappi stiano diventando sempre più…umani!

La battaglia per la famiglia continua…


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