giovedì 22 dicembre 2011

Parassiti




I giovani Giapponesi sono indipendenti, giusto? Si danno da fare, lavorano, già dalle superiori si trovano un バイト (アルバイト、lavoro part-time) per non pesare unicamente sui genitori. Gli studenti universitari neanche a dirlo, un lavoretto o due ce l’hanno di certo. In più i genitori non sono ossessivi come i nostri, soprattutto le mamme.

Falso.

Se è vero che confronto a noi Italiani i Giapponesi sono complessivamente più indipendenti, bisogna anche rendere conto di quella significativa fetta di giovani che fino all’età del matrimonio (e a volte anche oltre) rimane a carico dei genitori.

Bamboccioni in italiano, nesthocker in Tedesco, no-se-va-màs in Argentino, il succo è lo stesso: i giovani che non si levano dalle ….

Sfortunatamente in Giappone l’appellativo per costoro, coniato dall’eminente professor Masahiro Yamada della Tokyo Gakuei Universty, è un po’ più offensivo. Parassiti. Prassite single.

Nel bestseller annata 1999 パラサイトシングルの時代, (parasaito shinguru no jidai) Yamada ci racconta della decadente gioventù giapponese, dei milioni di giovani (10 nel 1995) che all’alba dei trent’anni ancora vivono coi genitori rifiutando le responsabilità della vita adulta. Yamada accusa in particolare le madri di questi parassiti e, neanche a dirlo, le giovani donne. Sì, perché per il professore il fenomeno è tra le prime cause dei terribili problemi che affliggono il paese, bassi tassi di natalità in primis.

Ma da dove spunta quest’armata di parassiti? Questi scarafaggi, queste immonde creature che succhiano la linfa vitale di genitori ciechi d’amore?
Beh, non è un segreto, in Giappone la vita costa cara. E specialmente in città come Tokyo con gli appartamenti non si scherza e un giovane lavoratore dovrebbe impiegare circa metà del proprio stipendio per pagarsi l’affitto. Per non parlare poi delle spese extra, dei benefici legati alla mamma che cucina, che ti stira le camicie… ma queste cose noi italiani le sappiamo meglio di chiunque altro!

Il fatto è che a essere pieni di soldi chi non vorrebbe vivere per conto proprio? È quando i soldi scarseggiano che i compromessi diventano necessari. Ciò che Mr.Yamada non si forza di comprendere affondo è il contesto di stagnazione economica che affligge il Giappone dagli inizi degli anni 90’.

La situazione dei moderni giapponesi all’indomani dalla laurea non ha nulla a che fare con quella di Yamada e coetanei negli anni d’oro. Stipendi a vita, aziende in costante espansione, sogni produttivistici, miti produttivistici…oggi giorno tutto ciò e scomparso. La compagnia (non dico azienda perché suona troppo brutto) non è più quel luogo dove i sogni di carriera e successi possono diventare realtà, ma il luogo della fine di ogni speranza. I lavori sono perlopiù a contratto e il Tokyese medio preferisce di gran lunga diventare un フリーター piuttosto che darsi alla vita da salaryman.

L’abbandono della casa familiare corrispondeva in passato all’incirca con le nozze. Fine degli studi, inizio del Lavoro (con la L maiuscola), addio alla casa dell’infanzia, matrimonio. Questi eventi erano strettamente legati e quasi imprescindibili negli anni 70’ e 80’, ma oggi le cose sono cambiate. Si guadagna di meno e ci si sposa più tardi; risultato, abbandonare le comodità della vita in famiglia appare anche ai coetanei nipponici tutto sommato una scelta discutibile.

E poi ci sono le mamme. La colpa è sempre delle mamme! Protettive, amorose, onnipresenti, le madri giapponesi viziano i loro figliuoli almeno quanto le nostre, in particolare da quando la famiglia media in Giappone non si concede che un solo figlio. Viziati fino all’inverosimile i giovani giapponesi sono assai più 我が儘 di quanto non si crederebbe. Non sanno cucinare, in casa non fanno nulla e anche a scuola sono spesso difesi da questi genitori ultraprotettivi. Così protettivi da essersi recentemente meritati l’appellativo di "monster parents" (モンスターペアレント), argomento di cui parlerò più dettagliatamente in un altro post. I professori non sanno più cosa fare, i ragazzini sono intoccabili e quando succede qualcosa è diventato più conveniente chiudere un occhio che mettersi contro i genitori mostro. Risultato: i casi di bullismo giovanile sono in crescita.

Che ne sarà di questi ragazzini viziati? Che si meritino davvero l’appellativo di parassiti?

lunedì 19 dicembre 2011

Mi sposo o aspetto ancora un po'?





È vero, in Giappone ci si sposa sempre più tardi. E questo è soprattutto vero per le aree urbane dove i dati ci mostrano un realtà di single in aumento. Nel 2005 il 33% delle donne in età compresa tra i 35 e i 39 anni e il 12% degli uomini in età compresa tra i 40 e i 44 erano single. E se per noi europei questi dati non appaiono poi così sconvolgenti bisogna ricordarsi che in Giappone fino a non più di un paio di decadi fa la situazione appariva completamente diversa. L’età media per il matrimonio si aggirava attorno ai 22 anni (praticamente subito dopo la fine degli studi) e il numero di single ultratrentenni era del tutto irrisorio. Cosa è successo nel frattempo? I Giapponesi hanno scopeto che si sta bene da single? Che il matrimonio porta guai? Non proprio.

Secondo un sondaggio del 2005 il 90% delle donne intervistate in età compresa tra i 18 e I 34 anni dichiara di volersi sposare presto. L’idea è che le donne giapponesi desiderino sposarsi ma qualcosa le ostacoli. Che succede?

Tutto comincia negli anni 90’. E precisamente dopo la crisi economica del 1991, data importante che segna una rottura decisiva nella storia del Giappone contemporaneo. La crisi del 91’ infrange innanzitutto un mito, quello della crescita. Il Giappone non sarà più lo stesso soprattutto per gli stessi giapponesi – una sorta di trauma psicologico nazionale. Ma le conseguenze si fanno vedere anche nei fatti: stipendi stagnanti, disoccupazione e – cosa più importante per quest’analisi – l’ingresso delle donne nella forza lavoro.

Dal dopoguerra fino agli anni 90’ il modello di famiglia cittadina è pressoché costituito da un salaryman stipendiato che lavora tutto il giorno, una moglie mamma e casalinga, un paio di pargoletti. Dagli anni 90’ in poi tuttavia questo modello di famiglia si rivela sempre più insostenibile. Il problema è chiaro: gli stipendi sono semplicemente insufficienti a mantenere un’intera famiglia.

Cosa succede? Finalmente anche le donne, finora segregate al ruolo di mamme-massaie, intraprendono il loro processo di emancipazione. Amen. 
E così fu; negli ultimi vent’anni il numero di donne lavoratrici è cresciuto sensibilmente guadagnando alle donne – oltre ai soldi – una maggiore indipendenza e dignità.
Primo effetto: le donne sono più indipendenti, non hanno bisogno di un marito come fonte di reddito. Il matrimonio non è più una necessita. 楽しみましょう!

Eppure questa spiegazione non rende conto di tutte quelle donne lavoratrici che vorrebbero comunque sposarsi e non lo fanno. Perché? La risposta giace nelle credenze idiote del Giappone (contemporaneo). L’idea è la seguente: una donna ha il dovere di sposarsi e avere figli ai quali una volta sposata dovrà dedicarsi totalmente, marito incluso (che di fatto diventa poi un vero e proprio figlio). Non ci sarà tempo per un altro lavoro. Se hai anche un Lavoro vuol dire che sei una pessima madre, una pessima moglie e probabilmente una pessima lavoratrice. だめ!
Ma se questa fosse solo la convinzione di qualche vecchio conservatore non ci sarebbero problemi. Il problema invece è che questa è davvero la mentalità diffusa in Giappone, in particolare in ambiente corporativo (anche nelle grandi città, luoghi dove in teoria dovrebbe aleggiare un’atmosfera un po’ più progressista. …ma d'altronde si sa, il Giappone rimane un'isola!).

Le donne non si sposano perché nella maggior parte dei casi ciò comporterebbe la perdita del proprio impiego. Come? Semplice; nella tradizione più squisitamente nipponica del “licenziamento suggerito” una donna che si sposa (o che rimane incinta che è poi la stessa cosa come spiegherò) sarà gentilmente invitata a lasciare il proprio lavoro. Che fare dunque? Mi sposo o spetto ancora un po’?

Ma attenzione, perché aspettare troppo a lungo porterebbe rivelarsi pericoloso. Sì perché alla soglie dei trent’anni per una donna nubile avviene la trasformazione. Come i sayan si trasformano in enormi scimmioni nelle notti di luna piena, così le donne giapponesi si trasformano in makeinu (負け犬)
Ebbene sì, letteralmente dei "cani perdenti". Perdenti perché non hanno saputo accasarsi, perdenti perché non hanno ancora contribuito alla società dando alla luce dei figli. Perché in Giappone la procreazione è davvero considerata un valore civico. Chi non sforna bambini non sta facendo il suo dovere nei confronti del paese. Una trasformazione totale insomma; una nuova pelle sociale, un nuovo marchio al pari di un nuovo sesso.

Questa mentalità è stata promossa a tutti i livelli e più che mai da quando il paese ha problemi di bassi tassi di fertilità. In Giappone vale la seguente equazione: matrimonio = figli. Le due cose sono quasi indistinguibili; un matrimonio senza figli è semplicemente okashii.

E chi non si sposa, chi non figlia, è un irresponsabile. A questo riguardo segnalo un libro (più che altro un manifesto!) molto famoso e discusso in Giappone: Onibaba-ka suru Onna-tachi ("donne che diventano vecchi demoni"…wow!). Questo manifesto della “vera donna” è stato scritto (incredibile!) da un’illuminata professoressa dello Tsuda College. 
Miss. Misago Chizuru è assai dettagliata nel ricordare alle donne giapponesi i loro doveri. Ci racconta di come per le donne la possibilità di avere figli sia da considerare “un dono” e di come le donne che rifiutano il loro dovere debbano essere etichettate per ciò che sono: persone egoiste e immature. Dei veri e propri makeinu insomma.

E non è così facile dire “me ne frego”. C’è chi lo fa in questo e altri contesti, ma di fatto in questo paese il peso della stigma sociale è opprimente e si fa sentire con una forza per noi difficilmente comprensibile. Il sistema è ineludibile, non si sfugge alla macchina!

Parlando di matrimoni non bisogna poi dimenticarsi dei doveri “secondari” della sposa: la cura degli anziani. E non dei propri genitori (cosa che magari uno si sente di fare se non altro per riconoscenza!), ma di quelli del marito. Una postilla contrattuale da non sottovalutare soprattutto considerato il fattore suocera.

E poi ci sono ovviamente gli uomini. I nostri poveri, ora davvero poveri, salaryman. Oggi giorno è dura trovare un buon lavoro, il vecchio impiego vitalizio è una bestia rara di questi tempi e il giapponese medio si guarda bene dallo sposarsi prima di aver trovato la propria stabilità finanziaria. Stabilità che, per inciso, significa avere abbastanza soldi per mantenere figli e moglie a casa. L’uomo è quello che porta a casa il cash. Se non hai il cash non sei un vero uomo. Parola di samurai del ventunesimo secolo.

I Giappi sono insomma inguaiati. Molti ci hanno rinunciato, hanno persino detto di no all’impiego a vita e alla fedeltà aziendale e si sono fatti フリーター a vita. Ma chi ripopolerà il nostro nippon? E chi manterrà viva la tradizione di sposalizi standard?

In attesa di risposte io aspetto ancora un po’.

domenica 18 dicembre 2011

Non è un paese Per vecchi. Ma non era un paese Di vecchi…?





Ebbene sì, non siamo noi il paese più vecchio. E qui non si parla di geologia ma di vecchi – di anziani, per essere politically correct. Il Giappone ci batte su tutta la linea. Con una popolazione di 127milioni di abitanti (vs i 60qualcosa dell’Italia) e una percentuale del 22.6% di over 65, il paese del sol levante può a buon diritto definirsi uno dei più grandi covi di vecchiacci su scala planetaria.

I Giappi, si sa, mangiano bene (almeno i vecchi). Poco olio, poca pasta, poco sale. E il loro regime alimentare, insieme a un sistema sanitario efficiente, garantisce aspettative di vita record: dati aggiornati al 2010, 85.8 anni per le donne e 79.4 per gli uomini.

E allora? Questo è un trend diffuso anche in Europa e in generale in tutti i cosiddetti “paesi sviluppati”. Non proprio. Perché in Giappone, a partire dagli anni del boom economico, la struttura sociale e familiare è stata rivoluzionata a tal punto che il paese si trova oggi del tutto impreparato ad affrontare le copiose orde di grinzosi nonnetti.

Ma dove sono tutti gli anziani? A Tokyo non se ne vedono poi tanti. A Osaka e Kobe neppure. Dove si rifugiano questi succhia tasse, questi cospiratori demografici? La risposta è semplice: inaka. Inaka (田舎) in Giapponese significa letteralmente campagna. Ma qui il significato di campagna è un tantino diverso. Per farsene un’idea basta osservare l’immagine qui sotto.




In Giappone sulle montagne non si vive. Perché ci sono gli spiriti (giuro). In città ci stanno i 2/3 della popolazione, tutta bella compressa. E nel resto del paese, in quegli splendidi paesaggi fatti di fior di ciliegio, vette innevate e scogliere sull’oceano, proprio laggiù si rifugiano i nonni del sol levante. I giovani sono davvero giovani, bambini per lo più. I ragazzi invece…beh, quelli appena possono se ne vanno. O sarebbe meglio dire che fuggono urlando. Sì, perché in queste città fantasma popolate da anziani per un ragazzo la vita si fa dura. Posso testimoniare di almeno tre amici americani che vennero spediti by Jet Program in alcune di queste lande della desolazione e in meno di un mese si ritrovarono vittime di fenomeni quali depressione acuta – e – bisogno di civiltà.

Come si pagheranno tutte queste pensioni? Come verrà garantita la crescita economica in un contesto di decrescita demografica? Chi lavorerà visto che in Giappone non ci si vuole affidare all’immigrazione per mantenere la razza pura? 

Ma queste sono domande da economisti. E magari ne parlerò in qualche altro post ma quello di cui vorrei discutere oggi è un altro tema – ovvero – come sono percepiti e accuditi gli anziani in Giappone? In che modo gli sconvolgimenti del sistema familiare hanno reso insostenibile il sostegno domestico degli anziani a favore delle cosiddette case di riposo?

Torniamo al boom economico. Sono gli anni sessanta. Il Grande Giappone (大日本) è inarrestabile. Le città crescono, gli stipendi pure. I Giappi sono potenti, il mondo li rispetta e li teme. Nasce un modello di lavoratore urbano. Un nome destinato a diventare simbolo dell’intero paese. Il mitico, mistico salaryman (サラリーマン). L’uomo del salario. Il colletto bianco, l’impiegato, il kaishyain. In una parola il Giappo tipo. Se c’è uno stereotipo totalmente assodato nell’immaginario collettivo per quanto riguarda il Giappone, quello è di certo il salaryman. Giacca, cravatta dal nodo impeccabile, camicia bianchissima. Occhio vitreo, capelli ormai brizzolati a trent’anni. Se ne sta nel treno, solitario, in piedi appeso, compresso o seduto, non importa. Sta dormendo. Sì perché sono le otto di sera è lui è sveglio dalle cinque di questa mattina. Una vita dura. Una vita di sacrifici. Ma non importa. Perché il paese è forte. La compagnia cresce. E il dovere di un uomo non è verso la propria famiglia (ma figuriamoci), ma verso la propria azienda e il proprio paese.

Il salaryman di fatto non è il giapponese tipo. Se per tipo=tipico si intende quello più diffuso in numero, bisogna ammettere che il giapponese tipo è (sorpresa) un vecchio o un colletto blu di una città medio piccola in qualche prefettura dell’honshu. Ma tipico o no, il salaryman di fatto una rivoluzione l’ha portata a termie. Ha creato un mito. Il mito dello stipendio che s’invola, il mito del lavoratore urbano, il cittadino per antonomasia. E ha inoltre creato uno spostamento 1) di gente, dalla periferia alla città 2) del modello di famiglia, da patriarcale a nucleare (che non vuol dire esplosiva).

La vecchia famiglia patriarcale è basata sul cosiddetto "ie (家) system". Un complesso groviglio di relazioni di dipendenza, fedeltà, vincoli, eredità e alleanze. Al di là della complessità per ciò che concerne matrimoni, discendenze e lignaggi, ciò che rendeva il sistema tradizionale sostenibile e riproducibile per la terza età era la sua imprescindibilità. La moglie del primogenito maschio, la yome, era destinata ad ereditare il nome della famiglia ospite e al tempo stesso il fardello dei genitori del marito. La yome era responsabile delle loro cure fino alla loro morte, momento nel quale sarebbe finalmente diventata capofamiglia a tutti gli effetti (sempre all’ombra del marito ovviamente, ma comunque una presenza assai meno opprimente del dominio dei vecchi).

Oggi le cose si complicano. Il primogenito maschio è generalmente anche l’unicogenito e lo stesso vale per la consorte, che certamente non potrà essere responsabile sia per i propri genitori che per quelli del marito. Eppure queste sono le aspettative. E le donne allora che fanno? Semplice, non si sposano più. Nelle aree urbane l’età media per il matrimonio si aggira su i 32 anni per le donne e i 34 anni per gli uomini mentre nelle aree rurali è anticipata di almeno una decade. Ovviamente questa non è la sola ragione per matrimoni ritardati in città, ma di certo dal punto di vista delle sofisticate donne urbane il matrimonio perde una discreta parte della sua appetibilità. Il Giappone si sa, è un paese sessista. E cioè un paese dove le discriminazioni tra uomo e donna persistono imperterrite pure peggio che da noi. E la cura degli anziani non fa eccezione; le stime indicano che ad oggi, circa l’ottanta percento di questi lavori è effettuato da donne.

Al di là del nuovo modello di famiglia urbana introdotto dagli anni sessanta, un grosso problema è inoltre rappresentato dalla rinnovata idea di vicinato. In Giappone, anche nelle città, il vicinato ha da sempre occupato un ruolo chiave per quanto riguarda l’educazione dei bambini, il supporto agli anziani, la sicurezza ecc. Oggi non più. I valori individualistici moderni hanno pressoché annullato il ruolo giocato dal vicinato e l’anziano è ora considerato non più parte della comunità, ma fardello privato della famiglia.
Chi sono i vecchi oggi? Emarginati, residuali alla vita, una terza età, di fatto un terzo mondo. Nascosti perché imbarazzanti i vecchi stessi hanno imparato a vergognarsi di sé stessi e, almeno in Giappone, a nutrire sempre meno speranze di poter spendere gli ultimi anni delle loro vite con i propri cari. Il vecchio samurai non vuole essere compatito, non vuole essere di peso. Meglio sparire, celato in qualche casa di riposo magari accudito da un super evangelion.

In Giapponese c’è un termine per indicare quella terribile esperienza che è la cura di un anziano da parte di un figlio unico: kaigojigoku (介護地獄), ovvero "l’inferno della cura dei vecchi". I casi di violenza su anziani sono andati crescendo costantemente negli ultimi decenni proprio per l’impossibilità da parte di individui soli di affrontare situazioni di questo tipo. E ciò è comprensibile. Quando scompare la famiglia allargata e poi scompare anche il sociale, la vecchia non può che apparire a tutti come un vero e proprio inferno. Il Governo Giapponese, per porre un freno al problema, ha persino approvato una legge per prevenire gli abusi, la “Law for the Prevention of Elderly Abuse and Support” del 2005. Neanche a dirlo, il problema non si risolve a colpi di leggi perché le sue radici sono altrove, e cioè nella struttura sociale.

Di pensioni non parlo neanche. Tanto si sa che non va mai bene niente.
Di robot per vecchi invece parlerò più approfonditamente perché si dà il caso che questo sia tra i miei soggetti preferiti nonché progetto di tesi di laurea^^

Concludo con un aneddoto. Nell’antico giappone cosa si faceva coi vecchi? Di certo erano più rispettati di oggi. Anzi, erano di fatto la saggezza incarnata. Basta guardare un film di Kurosawa per farsi un’idea del ruolo comunitario giocato degli anziani, i capivillaggio. Ma cosa accadeva quando il vecchio iniziava a perdere qualche rotella? Una volta si viveva di meno ma casi di demenza senile non erano del tutto assenti. Beh, la soluzione è pratica quanto barbara. Il nonno veniva portato nel bosco, veniva scavata una buca abbastanza profonda perché non potesse uscirne, e veniva abbandonato lì con un po’ di sake e qualche onigiri. Sayonara ojiisan!

sabato 10 dicembre 2011

Primo post

Primo post. Prima domanda. Perché lo fai?

Scusa n.1
Il blog è una scusa per scrivere. Se no non lo faccio.


Scusa n.2
Oggi piove e ho voglia di trafficare online. Creare qualche link, uploadare qualche foto...

Scusa n.3
Voglio dare un po' di prospettiva a quella porzione di immaginario collettivo intitolata "Giappone". Basta storie tipo "Una scampagnata a Nara", "L'arte dell'ikebana", "Quanto sono strani questi pachinko"...

Scusa n.4
Ma ci vuole sempre un buon motivo per fare qualcosa?

La scusa n.3 mi ricollega al fatto cruciale – ovvero – di cosa si parlerà in questo blog? Di Giappone ovviamente. Ma di quale Giappone? Viste le attenzioni dedicate dai nippo-bloggatori a tutto ciò che riguarda architettura, cultura tradizionale, nuovi gadget e scampagnate a Nara, questo blog sarà tutto dedicato alla società.

Società, che parolona. Diciamo a un po' di società, quella che i vari antropologi ecc. si sono sforzati di scoprire. Chi sono i Jappi non lo sanno bene nemmeno loro. Di certo però il Giappone di oggi non è tutto bonsai e cerimonie del te. Ma non è nemmeno quell'ammasso di stereotipi – quel mix di shinkansen+harajuku fashion+cessi high tech che ci viene spesso propinato. Questi sono esempi di folklore e cultura. La società però è altrove. Ed è fatta di famiglie, anziani, scuole, prigioni, ospedali e cimiteri. E La società, quella senza stereotipi, è spesso taciuta in questo paese. Taciuta, censurata, imbellettata.

Amo e odio il Giappone. E a chi leggerà i prossimi post auguro, come è successo a me, di appassionarsi ancora di più.

Katakanate è un nome stupido (ovviamente).
Una volta un amico mi chiese "ma che è キュート ?"
Io rispondo "sarà la solita katakanata".

Katakanate è un nome che raggiunge due scopi. Fa ridere e ci ricorda che una katakanata non sarà mai davvero 日本語 e nemmeno クール, ma sarà forse una piccola finestra sul mondo.